In quel dei Criterion qualcuno (la speranza è l’ultima a morire) avrà certamente notato che mancava nel novero dei gruppi Scandinavi dediti al Death metal il nome degli Anata; so che vi starete mordendo le mani in attesa di leggere la risposta a questo amletico dubbio, ma la risposta è facile…

Perché gli Anata non hanno proprio niente a che fare con i mediocri gruppi elencati nella suddetta occasione, e dirò di più, sono autori di una delle proposte più raffinate e artisticamente valide dell’intero scenario metal; in particolare sono stati gli unici in grado di svecchiare il Melodic Death e condurlo, invece che verso la commercializzazione, verso i lidi del Death più intransigente. Individuare influenze, proprio a causa della forte novità rappresentata dagli Anata, diventa difficile e praticamente si risolve dicendo che subiscono l’ascendente di tutto ciò che di buono ha prodotto il Death melodico e non dall’anno del signore millenovecentonovantacinque ad oggi; in particolare, come è naturale che sia, si rilevano sonorità tipiche del Death Europeo (Sinister, Vader, Trauma etc), di quello Svedese (Opeth, Dark Tranquillity, At The Gates) e, più sfumate, del Death americano dei primordi (i soliti quattro o cinque nomi che ficco in ogni recensione).

“Embè? E allora? So What?” so che tanti staranno dicendo: e invece no, gli Anata la testa la usano, e come la usano! Provate ad immaginare di ascoltare una crasi perfetta tra Morbid Angel e In Flames; cosa ne verrebe fuori? Gli Anata. Qualcuno ha mai fatto niente di simile? No. E perché no? Perché è una cosa da pazzi. Questo non è solo un delirio, è anche la risposta ad ogni possibile controbattuta. Il quintetto ha più o meno sistematicamente deciso di smontare in unità funzionali il Melodic Death e il Death normale, rimontando poi insieme i pezzi e vedendo quali stavano bene insieme e quali no; ma quel che meglio gli è riuscito è stato fare della frequente incoerenza dei brani il loro punto di forza. La tattica era già stata rodata nel precedente “Under A Stone With No Inscription” del 2004 e, ancora prima, in “Dreams Of Death And Dismay” (e ancora prima con "The Infernal Dephts Of Hatred" e alcune demo) e aveva funzionato bene; così questa volta hanno deciso di fare le cose in grande e qualche mese fa hanno consegnato alle stampe questo mastodonte della durata di quasi un’ora.

Mi sembra un pleonasmo dire che le abilità tecniche del quintetto rasentano l’assurdo e che sono paragonabili ad altri mostri sacri in fatto di perizia (il loro modo di suonare mi ricorda un po’ quello dei Nile). Le partiture delle chitarre sono veramente difficilissime e si snodano tra scale selvagge, aperture melodiche, accordi in maggiore, poi in minore, poi il caos e la potenza, e di nuovo un recondito sentimento che viene da chissà dove. Insomma, metaforicamente parlando, si distinguono nelle linee di chitarra due voci ben distinte che si provocano e che si rispondono, che si inseguono litigano e miracolosamente generano qualcosa di coeso, sebbene scoordinato. Il batterista, al pari dei suoi compagni, può vantare una tecnica eccezionale che dimostra non solo nella corretta esecuzione, ma anche nella capacità di incastrare alla perfezione elementi provenienti da generi diversi usando come collante la sua propria inventiva. Costui infatti non è solo un buon esecutore e riesce con i suoi (incalcolabili) cambi di tempo a far prendere forma alle sue idee. Nota cattiva invece per il basso e per il cantante: il primo lo si perde nel riffing (salvo poche occasioni), ma per questo si può sempre biasimare i produttore, mentre il secondo offre una prestazione ineccepibile ma priva di quel quid che distingue quelle dei suoi “band mates”. Qui ci vorrebbe il Giorgione (mi riferisco a George Fisher dei Cannibal Corpse) che nei Paths Of Possesion ha dato prova di saperci fare anche con la melodia: questo cantante non è da buttare via, solo che il suo growling è un po’ monotono e finisce per incarnare solo una delle due anime degli Anata, quella più legata al Death Old School.

A livello di atmosfera però non posso dire di apprezzare più di tanto questo cd: la colpa è della mia “ristretta capacità cerebrale” (questa è per intenditori) che mi impedisce di calarmi completamente in questo lavoro e coglierne il lato evocativo. Non appena una delle canzoni inizia a comunicarmi qualcosa, cambia rotta e mi ritrovo spiazzato senza più sapere cosa stavo provando: disorientante e disorientato potrebbe essere la giusta definizione. Ma a questo punto inizio a pensare che forse gli Anata abbiano voluto mettere troppa carne al fuoco e che allora fosse meglio il loro scorso lavoro; certamente hanno dimostrato una grande crescita rispetto al passato, ma proprio il fatto che qui l’amalgama tra arrabbiature e aperture struggenti funzioni meglio rende il tutto più difficile. Canzoni come la title track, della durata di oltre otto minuti, sfoggiano una ricercatezza esagerata che finisce per sgombrare e purificare la mente dell’ascoltatore invece che arricchirla di nuovi contenuti.

Ma qualsiasi sia la vostra opinione a riguardo, questi cinque tizi svedesi meritano ampiamente il successo che iniziano a riscuotere a livello mondiale e nulla toglie il massimo dei voti a “The Conductor’s Departure”, grande dimostrazione di come talento e applicazione possano aprire nuove strade.

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