Qualcuno ha scritto, da qualche parte, che questo è il loro capolavoro. Boh…
E allora, con questa premessa da che parte cominciare a parlare di questa (penultima) fatica della band di Liverpool? Ma anche, da quale angolazione inquadrare questa ben strana creatura del rock d’oltremanica, anche in considerazione del fatto che chi scrive li conosce solo dall’anno scorso e comunque dal disco in questione? Ancora boh…
Già, perché pare (come confermato anche da altri debaser in varie recensioni di materiale piu’ datato) che prima di AFDTE – anzi, x la precisione prima di quel Judgement datato 1999 – gli Anathema fossero, dal punto del vista del sound, tutta un’altra band. Dedita ad una musica molto (doom) metal, con tanto di cantato in ‘growling’ style.
Ohibò.. per chi – come il sottoscritto – giunge al loro cospetto solo in tempi recenti, pare impossibile. Si perché in queste 9 tracce non c’è niente, ma proprio niente che richiami il metal e men che meno le sonorità feroci e ammantate di cupa disperazione del doom. Si parla, molto più semplicemente, di un rock molto personale e malinconico, in cui non è difficile scorgere echi di Pink Floyd. Il tutto però è condito da una buona dose di melodia, mai banale o melensa e da un cantante che asseconda gli umori della musica, mantenendo quel suo timbro profondo e malinconico, vero ‘io narrante’ che tratteggia e detta la rotta del disco.
L’apertura pianistica dell’iniziale (bellissima) Pressure potrebbe richiamare da vicino certe cose dei Radiohead, ma sarebbe oltremodo fuorviante pensare di essere di fronte all’ennesima clone-band dei 5 di Oxford. Infatti la successiva Release (forse la migliore del lotto) imprime già una sterzata al disco; partenza in sordina con i fraseggi della chitarra acustica in primo piano, per poi ‘aprirsi’ verso la metà del pezzo e diventare una autentica cavalcata rock, con bellissimo finale a sfumare dopo un assolo di vago sapore ‘grunge’.
Le canzoni si assestano quindi su un registro decisamente piu’ ‘soft’ ed il mood si fa piu’ introspettivo (bellissima Barriers, con l’ugola femminile di Lee Douglas a fare la seconda voce) fino alla veloce e punkeggiante Panic, a conti fatti l’unico pezzo davvero ‘tirato’ dell’album (oltreche il più immediato).
In chiusura, altri due gioiellini come la title track e la conclusiva Temporary peace – ancora a due voci – che rimandano un senso di quiete trascendentale.
Un disco sicuramente molto gradevole, che conosco forse ancora troppo poco per dare un giudizio più esaustivo e decantare come veramente eccellente. Di certo, un album (ed una band) che mi riprometto sin d’ora di conoscere più approfonditamente e che per quanto mi riguarda meriterebbe miglior sorte, specie in considerazione del fatto che dalla Gran Bretagna ultimamente si sono affermati dei gruppi nettamente inferiori in quanto a qualità della proposta, e dei quali francamente si potrebbe tranquillamente fare a meno (vere Oasi(s) di mediocrità).
Che sia forse colpa del nome?
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