Nel 1998 esce "Silver Soul". E' il settimo album in studio per gli AATT, che decidono di proseguire sulla scia di "The Klaxon" e "Angelfish", lavori in cui il loro personalissimo stile si era arricchito di umori d'oltreoceano. Lo fanno ora in maniera più decisa, lasciandosi alle spalle le nebbie inglesi e sterzando, anzi virando (è bello pensarli a bordo di un vecchio transatlantico) verso le terre lontane d'America, in cerca di fortuna. L'America verso cui puntano non è però quella di oggi, con i suoi grattacieli imponenti e fiumi di automobili su otto corsie; non è nemmeno quella delle onde californiane, dei casinò, dei concerti negli stadi e delle conigliette di playboy. Ci si accorgerà presto, e con un certo stupore, che ad esplorare "Silver Soul" non ci appariranno grattacieli, se mai, palazzi in costruzione, non strade trafficate e assordanti, ma vie solitarie in fredde notti metropolitane, non esibizioni da stadio, ma performances raccolte dentro qualche fumoso pub di Manhattan, non conigliette ma fascinose pin ups, come quella che campeggia in copertina. Un'America insomma d'altri tempi, forse quella di Elvis, Sinatra, Hemingway, Kerouac, o ancor prima, quella dell'espansione industriale, di Al Capone e del proibizionismo, ma la cui collocazione temporale è in realtà lasciata alle suggestioni dell'ascoltatore.
Certo è che la ricerca è da subito evidente alle prime note di "Nailed": un piano pulsante, una chitarra brusca ed incisiva dalle tinte tex-mex, una voce che sembra filtrare da uno di quei vecchi microfoni anni '50, talvolta qualche strumento a fiato: è difficile non immaginare di aver spalancato la porta di un locale da bassifondi newyorkesi, gli occhi che si alzano dai tavoli da gioco e ci guardano sospettosi, mentre un trio di musicisti neri riscaldano la scena con un jazz stantio. Tornano alla vita immagini perdute, per lo più notturne, evocative ma non necessariamente legate alle liriche, che a volte si tengono su binari paralleli, di difficile interpretazione. Come in "Blue Runner", brano forte di un groove sensuale e trascinante che invita al ballo, la colonna sonora per un party in un salotto d'elite, seduti con in mano un bicchiere di whisky (o non sarà scotch?), circondati da sinuose starlette di Hollywood; sicuramente il potenziale singolo dell'album. Più meditativa, ma altrettanto suadente, è la ballad "Rosemarie's Leaving", tra intimi ricordi d'infanzia e tremolii di chitarre da vecchio West. Il quarto episodio, "Cyclone", sorprende fin dall'attacco: una chitarra acustica punzecchiata come un mandolino, un organetto di strada, a rievocare paesaggi assolati e tradizioni... nostrane. Memorie da Little Italy? Se così fosse, un sicuro plauso a questi signori dell'alta Inghilterra per l'incredibile capacità di calarsi nella parte. Lo strumentale "Where The Souls Meet"ci porta nuovamente ad atmosfere notturne, sotto le luci al neon di una metropoli del passato. Da questo momento in avanti possiamo dire che la scaletta prende una direzione univoca, e diventa la descrizione di una notte vissuta per le strade, i locali, i parchi di una grande città, chissà, forse, una New York che non esiste più.
Con "Get Critical" si va a ballare in un locale da gangster dove suonano un energico free jazz, inacidito da sapienti chitarre. Poi, con "Before The Power Goes Down", si decide di proseguire in un Night dalle atmosfere intriganti e soffuse, dove l'orchestra, sostenuta dal piano e dal basso, sembra voler tirare fino all'alba. E' forse il brano più in assoluto "da ore piccole", da ascoltare tra i fumi di un locale ormai vuoto con in corpo i postumi di una sbornia e il senso di impotenza per il non potersi proprio sollevare da quel maledetto divano. I primi secondi di "The Obvious" sono invece la colonna sonora per una "resa dei conti" in perfetto stile Sergio Leone, ma poi il ritmo aumenta e gli intrecci chitarra-organo fanno da sfondo ad un intenso recitato. La notte è ancora lunga. Cosa rimane da fare? Una passeggiata solitaria per il "Jewel Park", a quest'ora così grande e desolato, cullati dal canto-ninna nanna di un Jones ciondolante quasi quanto Elvis. E quando si guadagna l'uscita, e ci si ritrova sulla "Highway 4287", si è colti da un senso di malinconia: tutto è buio adesso, non passano nemmeno più le macchine, e si è soli con i propri pensieri. Morbide tastiere alla Angelo Badalamenti entrano sulla scena; ci si guarda intorno, si alzano gli occhi al cielo, luccicante di stelle, e non resta che lasciarsi avvolgere dalle melodie che lentamente si sovrappongono. Tutto rimane all'insegna di un'estasi sognante, fino ad un imprevedibile quanto geniale ingresso del ritmo, un cha cha cha ipnotico che ci conduce con discrezione agli ultimi secondi del disco.
"Silver Soul" è dunque un viaggio ammaliante nel tempo e nello spazio, un'opera ispirata con cui gli And Also The Trees confermano tutta la loro classe, e chiudono idealmente la "trilogia americana" iniziata un lustro prima. In questi anni, ed in particolare con "Siver Soul", gli AATT hanno saputo mantenere le attese, confermandosi eleganti, evocativi, oltre che ottimi musicisti, senza però mai risultare inaccessibili o di maniera. Le suggestioni uniche di questo album, anzi, sono la prova di quanto una ricerca genuina e consapevole nei vasti territori della musica possa condurre a risultati davvero sorprendenti, e in più di un'occasione, portare al capolavoro. Perché l'America, in fondo, conserva ancora un'anima d'argento.
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