Molta della produzione musicale targata anni '80 può essere considerata come il risultato di un'invasione barbarica ostile ai solipsismi in cui era ormai sfociato il rock colto e sperimentale del decennio precedente. I punk furono nient'altro che questo, dei barbari che con le loro scorribande lasciarono in eredità, alle nuove leve, la tabula rasa dell'azzeramento. La ghigliottina. Dal loro furore iconoclasta si formarono una serie di piccole tribù. C'erano i dark, i new romantic, c'era noise e la (sopravvissuta) new wave, l'industrial eccetera eccetera. C'erano tutti questi e molti altri. Tutti più o meno apocalittici oppure integrati nella nuova realtà che dava un?immagine decadente di sé. Il fascino molle della civiltà in declino, e così via.
Il punk tutto sommato fu una figata, la necessaria figata che, ciclicamente, azzera tutto con esplosioni, pugni in faccia e lascia il re nudo e fuggitivo. Ma fu soprattutto una giostra e, quando si fermò, lasciò dietro di se la sensazione più ovvia che era quella del disorientamento. Ian Curtis non aveva altro da fare che deprimersi coi suoi incubi nero pece, ripetitivi come quelli di un pazzo; l'estetica dark-punk di Siouxsie mieteva vittime in qualunque angolo della metropolitana londinese; Robert Smith si ergeva a idiota sublime e rincorreva quelle meravigliose desolazioni che catturò poi nei piagnistei di Disintegration.
E furono proprio i suoi Cure a produrre i primi lavori degli And Also The Trees condividendo con loro diversi palchi all'inizio delle rispettive carriere. Fu il 1986 l'anno in cui vide la luce questo album, "Virus Meadow", piccolo compendio di intuizioni dall'indole nera. Cupo e al contempo possibilista circa un'eventuale salvezza. Ma per gli AATT la salvezza era da ricercare fra gli spazi aperti e nebbiosi della campagna inglese laddove i cuginetti Cure la cercavano fra le foschie dello smog di Londra. "Virus Meadow" fu la creatura che nacque dall'humus già antropizzato dai barbari modaioli che inneggiavano alla contemplazione di scenari di desolazione. Una sensibilità decadente, ormai à la page.
Qui le atmosfere furono arricchite dalla teatralità vocale di Simon Huw Jones, dalle sue litanie apocalittiche. Ci pensarono poi gli abbondanti, consueti, riverberi a contrastare le melodie e le liriche spesso claustrofobiche. Non c'è l'aria sognante che caratterizzerà tutta la produzione di Smith e soci di li a venire. Qui, piuttosto, c'è quell'aria esoterica che sarà ripresa dai pregevoli e mai abbastanza ascoltati Red Temple Spirit: nella quarta traccia, "Vincent Craine", la vicinanza è chiara soprattutto nelle chitarre. Ma è il primo brano, "Slow Pulse Boy", a definire l'umore orfico dell'intero album, a disegnare lo spazio tra un orizzonte e l'altro. Jones, per l'occasione, indossò i panni del sacerdote e iniziò a parlare di esplosioni, di vene come oscuri fiumi rossi, della liberazione che deriva dalla conquista degli spazi aperti. "Each explosion bounces from horizon to horizon". La sua voce è fieramente amorfa. Non si tratta di un canto ma di una specie di orazione dalla timbrica tenebrosa.
Nel finale, la tensione accumulata si scioglie in una sensazione di ritrovata serenità: "somewhere a girl singing/ there is a calm in the air/ but there is greater calm than i can bear/ tomorrow the sun shines." I difetti sono da ricercarsi nell'uso strumentale e strumentalizzato dei sintetizzatori, nel modo ingenuo e forse un po' ruffiano di ammiccare al mainstream di quegli anni. L'episodio gotico di "the dwelling place" lascia il tempo che trova e distoglie da un ascolto che filerebbe via con una continuità più appagante. Ma è un buonissimo album, questo resta. Non è il paradigma di un umore o di un'epoca, ma il modesto e raffinato contributo di un gruppo da salvare.
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