Un vuoto di umanità incolmabile.
“Pompeo è la summa ideologica e stilistica di un autore (Paz) senza più ideologie e senza più nemmeno uno stile” The P.
Quando apparve Pompeo fu una ferita aperta nell’anima di ognuno di noi. Una dichiarazione di una sconfitta esistenziale e una resa incondizionata senza mezzi termini. Pompeo nacque come diario aperto, fragile, inerme, indifeso e disarmante del periodo più nero di Andrea Pazienza, il disegnatore già cult, vera e propria icona fumettistica (quasi una Rock Star) degli anni ’80.
Fa davvero girare il culo sapere che tutto quello che sta scritto e disegnato in questo volume, era già il macabro presagio di una profezia di morte annunciata.
Il libro (uscito nel 1987) è il resoconto fedele di Pompeo, che in realtà è l’alter ego nemmeno tanto mascherato dell’autore, che si ritrova a fare i conti col suo passato fallimentare, il suo presente di tossicodipendente ormai in scimmia totale e un futuro incerto che non vedrà mai avverarsi (così sarà di Pazienza appunto, che morirà di overdose nel giugno del 1988).
Un album per molti versi inquietante e ossessivo, in bianco e nero, disegnato in maniera disperata, con un urgenza espressiva senza eguali (su fogli improvvisati, su cartoncini quadrettati di scuola o pezzi di tovaglioli di carta di qualche bar) e che affronta a muso duro e senza mezzi termini le angosce introspettive dell’autore, intrappolato in un girone infernale che fatica a scrollarsi di dosso. Diviso tra una realtà troppo dura da accettare (la rincorsa continua alla dose che non è mai abbastanza) e l’angoscia di non saper vedere “oltre” la sua triste condizione esistenziale.
Il libro è apparentemente senza una sceneggiatura lineare (come di fatto lo è la Vita) in cui si mescola realtà e finzione, racconto e favola, pensieri e azioni, pianti e risa in una sovrapposizione stilistica e di lettura che ne sfuma continuamente i confini.
E fa ancora girare il culo, la cruda verità di frasi scolpite come epitaffi tra le pagine graffiate da pennarelli ormai scarichi. Frasi gridate che urlano straziate la voglia di un riscatto che non avverrà mai. Riscatto che avverrà soltanto con l’Amata Liberazione di una morte annunciata fin dall’inizio del libro e che libererà l’autore di quel fardello esistenziale troppo pesante per le sue fragili spalle.
E perdonate se insisto, ma mi fa girare doppiamente il culo, come queste pagine di amara memoria siano tremendamente attuali ancora oggi, che sono passati 20 anni dalla sua morte. Come se le angosce di allora, abbiano semplicemente cambiato vestito e come se quel cancro sottile che è il “mal du vivre” che alberga tra i giovani di qualsivoglia generazione e con spiccata sensibilità, sia in fondo lo stesso, immutato e spietato nichilismo decadente che si tramanda di generazione in generazione.
Scrive Pazienza nella postilla conclusiva del libro: “In qusti anni ho scoperto di non essere un genio. Perche' si', lo confesso, da ragazzo ci speravo. Invece no, sono un fesso qualsiasi. Pero', c'e' sempre un pero', e' vero, sono un disegnatore eclettico. Un disegnatore ecletto-sfaticato. Poi ho scoperto di non essere attendibile, e di non essere tante altre cose, deficenze a volte gravi delle quali chiedo a qualcuno di perdonarmi.”
Comunque sia andata: grazie lo stesso “vecchio Paz” …sarà stato tutto vano ma la tua dipartita ha comunque lasciato un vuoto di umanità incolmabile in tutti noi che ci siamo identificati nei tormenti e le estasi di quello strano "PomPaz" che ci hai lasciato in eredità.
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