Il pinterismo è quell'atteggiamento teatrale enfatico che sottolinea l'importanza della situazione. Sì prende il nome da Harold Pinter, il nobel (2005) alla letteratura. Quello là.
Quando nel 2004 io e il mio gruppo, pedanti e sgraziati musicisti che ci tenevano sempre a ricordare quanto fosse fasullo il mainstream, provavamo nelle umide cantine di Cuneo vecchia ci struggevamo e torturavamo per capire come avremmo potuto dare espressività ai nostri pezzi. Quanti prodotti chimici avremmo dovuto ancora assumere, quante rovinose storie d'amore vivere, quante note prolungate avremmo ancora dovuto stirare per raggiungere lo zenit? Come tutti gli entusiasti ma inesperti amatori però finivamo per scambiare il dito con la luna. Infatti, pensavamo bastasse mettere in coda ai brani: note sfumate, distorsioni da maratona, silenzi durante i quali ci fissavamo. Pinterismo insomma. Pensavamo che quelle cose bastassero a dare carica emotiva e pathos. Che con quello avremmo potuto comunicare quanto provavamo dentro di noi. Poveri illusi.
Volevamo essere grandi, e tutti i grandi fanno uso, volontariamente o meno, dei pinterismi. Tutti. Dai Velvet Underground ai Pink Floyd, agli Wilco, ai Radiohead. Tutti loro sanno maneggiare quelli che Pierpaolo Capovilla con puntualità verbale chiama "silenzi narrativi". La band tira al massimo la tensione, le emozioni, poi ti lascia lì, a bocca aperta, a inseguirli nei riccioli fumosi degli strumenti. Un effetto sonoro che ha il suo corrispettivo grafico nella copertina di "Nowhere" dei Ride.
I Massimo Volume, beati loro, sanno usare i "silenzi narrativi". Sanno anche scrivere pezzi che descrivono la circolarità insensata della vita e al tempo stesso che si elevano verticalmente, raffigurando condizioni umane universali. Le loro storie sono autentiche, mai goffe come quelle che scrivevamo noi. Quando Emidio canta: "Non sarei mai più tornato a casa" ti senti come se fossi sul retro di un ristorante svedese, con il grembiule sporco tra le mani e abbastanza volontà per dare fuoco alla città intera. Io e il mio gruppo, "mio" usato senza dovizia di causa, li abbiamo sempre invidiati e idolatrati, naturalmente. E perché non farlo?
Sono stati uno dei migliori gruppi italiani degli anni novanta, per qualità e raffinatezza.
Minimalismo e poetica, degni dell'arcadia musicale che proprio in quegli anni mandava luce dall'America del nord.
Ora, a otto anni dallo scioglimento, dopo la réunion del 2008, hanno pubblicato un nuovo disco: "Cattive Abitudini". Collateralmente esce "Tutto Qui" (Arcana, euro 18,50) biografia del gruppo, scritto da Andrea Pomini: eclettico passepartout della musica indipendente italiana: giornalista (scrive per Rumore), musicista (con i Disco Drive), fondatore dell'etichetta "Love Boat" (per la quale hanno pubblicato gli Altro, i Giardini di Mirò e i Frammenti). E' in poche parole una di quelle persone che-ringrazia-che-ci-sono. Ecco una breve intervista.
Dunque, i Massimo Volume esordiscono Ufficialmente con "Stanze" nel 1993, come descriveresti l'ambiente e la cultura musicale italiana dell'epoca?
Erano innanzitutto gli anni del rap in italiano. Un'esplosione comunicativa - soprattutto se vista col senno di poi - forse confusa e molto (troppo?) legata al momento, ma urgente come da tempo non se ne sentivano. La parola era di nuovo centrale, pronunciata nella stessa lingua di chi ascoltava e portatrice di contenuti. Come nel punk hardcore italiano degli anni '80 (non a caso molti protagonisti della scena rap proprio da lì venivano), ma con un'accessibilità musicale inedita. In ambito rock invece, il cantato in italiano di Afterhours, Marlene Kuntz, Casino Royale, Dischi del Mulo, Consorzio, Mescal e mille altri doveva ancora arrivare, o stava appena nascendo sottoterra. I CCCP avevano utilizzato il parlato in precedenza, così come gli Starfuckers di "Brodo di cagne" strategico, un gruppo e un disco fondamentali per la nascita e i primi passi dei Massimo Volume. Che cominciarono sicuramente influenzati da questa atmosfera, ma con le idee ben chiare fin da subito su quale dovesse essere il loro percorso, un percorso unico e molto personale proprio di chi è mosso prima di tutto da un'esigenza comunicativa fortissima. Che passa sopra a ogni discorso musicale, stilistico, tecnico. Sempre.
Quand'è stata la prima volta che li hai sentiti? Che cosa ti ha colpito di loro?
Li ho sentiti per la prima volta nella vecchia sede di Radio Black Out, la stazione autogestita torinese dove trasmettevo all'epoca. Avevo letto qualcosa su di loro su "Rumore", ma non li avevo mai sentiti. Arrivò in redazione una copia di Stanze in vinile, e l'effetto fu dirompente. A colpire prima di ogni altra cosa furono le parole, naturalmente: era come aprire una finestra sull'ignoto e sul profondo di noi stessi, contemporaneamente; erano come cose che sentivamo di avere dentro ma non avevamo mai trovato il modo di esprimere. La musica le accompagnava in maniera perfetta, dura e istintiva, eppure calcolata al millimetro, nulla fuori posto.
A tua opinione, qual è il punto di forza dei Massimo Volume?
Esattamente questo. Penso di non fare un torto agli altri membri del gruppo dicendo che le parole sono la punta di diamante dei Massimo Volume. Dario Parisini, per un breve periodo chitarrista del gruppo, lo spiega benissimo nel libro: "Adoro i testi di Mimì, credo che insieme a Lindo Ferretti e Franco Battiato sia il paroliere che più abbia trovato le parole per tante persone. Tradurre in parole ciò che le persone pensano, che hanno come sensazione addosso ma non riescono a concretizzare: questo credo sia il dovere di un artista. Lo faccia con la musica, lo faccia con un film, lo faccia come cazzo gli pare. Quelle di Emidio sono parole che hai come sensazione epidermica, come sintomo. Lui è il dottore che arriva e ti dà la diagnosi: questo hai, questo volevi dire". Egle, Vittoria e gli altri lo hanno messo nelle condizioni di fare rendere al massimo quelle parole, moltiplicandone la potenza.
Quali sono i gruppi che citeresti dovendo riassumere il background dei Massimo Volume? E per quanto riguarda i loro, diciamo così, "discepoli"?
Per quanto riguarda il background, dipende dai singoli e dal momento in cui sono presi. Ciascuno di loro nel libro racconta nei particolari le proprie passioni non solo musicali, e non tutte sono passioni riscontrabili poi nel suono del gruppo, quanto meno non in maniera evidente. Quello che si vede, all'inizio, è la ricerca di una propria via fra post-punk inglese e post-hardcore americano, con uno sguardo al minimalismo e alla psichedelia che si fa via via sempre più forte, man mano che il rumore e la furia degli esordi calano. Riguardo ai discepoli veri o presunti, invece, ripeterò quello che scrivo nell'introduzione: i Massimo Volume hanno creato un genere e nello stesso momento lo hanno ucciso. Prima non c'era nulla del genere, dopo ogni cosa simile è diventata inevitabilmente "alla Massimo Volume". Sia i tentativi un po' maldestri di imitarli, sia gli slanci sinceri di chi vedeva aprirsi una porta precedentemente chiusa e ne seguiva l'esempio, sia le canzoni di chi in realtà non c'entra quasi nulla con loro se non per l'analogia superficiale del parlato, ma viene comunque etichettato come clone, non meritandolo.
Un'altra cosa è provare a indagare su chi potrebbe avere oggi l'impatto che i Massimo Volume ebbero allora sulla musica e sulla gioventù del nostro Paese. Il loro ruolo, la loro forza, la loro capacità di segnare le vite di chi ascolta e di dividere il pubblico in due. In questo senso, non vedo al momento nulla di paragonabile a loro e a quello che rappresentarono.
Parlando del libro, quando e perché hai deciso di realizzarlo? Come ti sei mosso?
Mi è stato chiesto dalla casa editrice, molto semplicemente. Uno dei miei gruppi preferiti di sempre e un marchio storico dell'editoria musicale (e non solo) italiana: un'offerta che non potevo rifiutare! Da subito ho deciso che non sarebbe stata una biografia classica, raccontata da me attingendo a fonti bibliografiche già esistenti e aggiungendo qualche analisi critica. Sia perché la bibliografia sui Massimo Volume era scarsissima - nessun libro, qualche vecchia intervista su riviste degli anni '90, qualche accenno parziale e romanzato nei libri di Emidio Clementi - sia perché, materialmente, quando quelle cose succedevano io non ero lì. Non ero il loro manager, fonico, roadie o quant'altro. Avrei dovuto comunque farmi raccontare le cose da loro, e quindi ho pensato di impostare tutto come una storia orale nella quale parlano solo i vari protagonisti, seguendo l'esempio di un libro fondamentale come "Please Kill Me" di Gillian McCain e Legs McNeil. Pensavo lo meritassero, e pensavo che su alcuni snodi fondamentali della storia del gruppo sarebbe stato impossibile (nonché inutile e molto meno interessante) avere una sola versione dei fatti. Così ce ne sono due, tre o quattro, e in qualche maniera la cosa arricchisce la narrazione e la definizione dei vari personaggi in ballo. L'unica maniera possibile e l'unica maniera che mi interessava coincidevano, insomma. Ho quindi intervistato a lungo, e quasi sempre di persona, tutti i nove membri presenti e passati del gruppo, e nove persone che hanno avuto a che fare con i Massimo Volume in maniera attiva: produttori dei loro album, collaboratori, discografici, manager. Tutti sono stati estremamente disponibili, e si sono raccontati a fondo, più a fondo di quanto immaginavo e speravo. Ho poi trascritto e sistemato ogni intervista, e quindi incastrato le varie testimonianze una dentro l'altra, cercando di seguire un ordine quasi sempre cronologico e riuscendo (non ci speravo...) a non intervenire mai in prima persona con raccordi, dati, date. Un lavoro lungo e faticoso, ma molto più interessante, per me e spero per chi legge.
Come giudicheresti il nuovo album "Cattive Abitudini"?
Come lo ho giudicato recensendolo (su Rolling Stone di ottobre): ottimo. Uno dei loro migliori album. Molto classico eppure nuovo, fresco. Con ottimi testi e con musica altrettanto vitale, grazie anche all'ingresso in formazione di un chitarrista bravo e creativo come Stefano Pilia. E con alcune fra le loro migliori canzoni di sempre, Litio su tutte.
Puoi riassumere il tuo percorso tra fanzine, etichette e radio? Una cronologia diciamo.
Ho cominciato a scrivere molto giovane, intorno ai 14 anni, con le cronache delle partite di pallacanestro per il settimanale locale. Poi ho dato vita a una fanzine, "abBestia!", della quale sono usciti sette numeri e che è arrivata a vendere un migliaio di copie e oltre. Nel 2002 ho cominciato a scrivere su "Rumore", e oggi questa passione è diventata uno dei miei lavori: collaboro anche con "Il Giornale della Musica", "DJ Mag Italia" e "La Repubblica", e scrivo occasionalmente anche per varie altre testate. E ho scritto il libro di cui stiamo parlando, naturalmente! Ho anche un blog, che si chiama Soul Food. Per un po' di anni ho avuto anche una piccola etichetta indipendente, "Love Boat Records & Buttons". Tredici uscite in tutto fra 1997 e 2004, dischi di Altro, Giardini di Mirò, Deep End, A Modern Safari, Diana Darby, By All Means e Frammenti fra gli altri.
Disco Drive, Dj set, parlaci delle tue esperienze in campo musicale.
Nel corso degli anni ho suonato in diversi gruppi: I Fichissimi, Encore Fou e Disco Drive soprattutto. I primi erano un gruppo attivo verso la metà degli anni '90, che abbinava pop-punk melodico di scuola Ramones/Screeching Weasel/Queers a testi in italiano che cercavano di essere un poco più pregnanti della media del genere. I secondi suonavano duri e scurissimi, fra screamo e crust, anche loro con testi in italiano; i terzi volevano unire ritmi neri, energia punk e melodie pop e sono fra i tre il gruppo con il quale ho girato di più in Italia e in Europa. I Fichissimi hanno pubblicato un 7" e pezzi inediti su tre compilation; gli Encore Fou un cd; i Disco Drive due 7", un album e un mini-album con me, e un altro album dopo la mia uscita. In seguito ho prodotto delle tracce da solo con il nome di Repeater, una delle quali uscita su una compilation della berlinese Duplikat, e ho cominciato a fare il dj con regolarità. Da solo o in coppia con l'amico e collega Giorgio Valletta come Computer Says No.
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