"Il mio involucro invecchia ma io devo ancora nascere", diceva di sé Marilyn Monroe.

Marilyn sei morta che non eri ancora nata, dice Giancarlo Dotto in un bel libro, Il Dio che non c'è, un libro che parla di miti e mitomania. Leggendo questo riferimento a Marilyn, ho ripensato a Blonde. Film controverso e tra i più discussi degli ultimi anni.

Forse in questo sta la parabola tragica di Norma Jean, e il senso stesso del film di Dominik. Marilyn è morta prima di nascere, come i bambini che ha portato in grembo. Non ha mai vissuto perché ha vissuto una vita di tormenti e dolore, amata (pochissime volte per davvero, forse solo da Arthur Miller) ma anche dileggiata, insultata, oltraggiata, usata e gettata.

La felicità non era nel destino di Marilyn, quanto piuttosto il divenire, suo malgrado, una delle grandi icone/figure tragiche del Novecento. Schiacciata dal peso di un alter ego che aveva voluto creare anche per sfuggire dalla propria storia, rivolgendo al cerchio di luce la speranza di riscatto rispetto a una storia segnata fin dall'infanzia da sofferenza e dolore. Il dolore dell'abbandono, del maltrattamento, della solitudine.

Che la ha portata a riversare in età adulta un bisogno di attenzione e di amore, troppo per essere corrisposta. Che si è manifestato soprattutto nella tenera e ingenua ricerca della figura paterna, in ogni marito, e nell'illusione che il vero padre potesse rivolerla un giorno.

Blonde non è la Marilyn reale, è tratto da un romanzo di finzione di Joyce Carrol Oates, ma coglie l'aspetto principale della parabola della grande diva, ovvero, appunto, quello di una sofferenza che, esteticamente, Dominik rende in bianco e nero come a colori, in un formato e in un altro, in una alternanza di stili che ne fa un film senza dubbio anomalo e a suo modo sperimentale, ma che trova una grande efficacia grazie soprattutto all'interpretazione da Oscar di Ana De Armas. Che fosse stato per me avrebbe avuto la statuetta immediatamente.

Blonde è un film coraggioso e in certi aspetti anche estremo, disturbante, quasi horror. Una lenta discesa in un incubo senza ritorno, fatto di disperazione, sopruso, allucinazioni. Il lato più oscuro dell'America e di Hollywood. Scandito da angoscianti squilli di telefono che rappresentano presagi di sventura e di morte. Blonde ha inoltre il merito di smitizzare (definitivamente?) la figura di Kennedy, mai così unicamente negativo, squallido e repellente come in questo film. Mai Kennedy era stato messo in scena spogliato di qualunque forma di idealizzazione come nel film di Dominik.

Un grande film ma un'esperienza a tratti anche scioccante, non per tutti i gusti, con scelte discutibili ma che ne fanno ancora di più un lavoro prezioso e, nel bene e/o nel male, memorabile.

Che nella sua spirale di orrore lunga quasi tre ore mostra il lato peggiore di un'umanità che inghiotte e stritola ogni forma di innocenza, dietro la costruzione artificiale di sogni e miti.

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