The Michael Jordan of drunk driving played his final game tonight,
Emburdened by his loneliness he wanted to feel alive.
His laziness built the pyramids and his solitude was a knife,
the Michael Jordan of drunk driving played his final game tonight.
The Michael Jordan of [fare qualcosa] è una metafora abbastanza assopita per dire che qualcuno è un fenomeno nel farla. Ma il Michael Jordan della guida in stato d'ebbrezza è lo stesso Michael Jordan che nell'ottantasette faceva il fenomeno e umiliava ragazzini delle medie al campetto, quando all'improvviso all'angolo un terribile incidente e allora lui tirava il pistolotto sul non farsi dare passaggi da gente ubriaca. Triplici paradossali stratificazioni di senso che, mentre ghignano di una cultura americana ingenua e ormai nell'oblio VHS, raccontano una storia d'apatia, pigrizia, solitudine e suicidio. In tre versi, per una ciclica quartina folk acustica e mandolino da ventidue secondi. Incastonati in melodia che non si può dimenticare. Neanche so che figura retorica possa essere quella della pigrizia che costruisce le piramidi, ma è la stessa, ripetuta, del poeta Majakovskij amante di sé stesso. Con la voce di Sean Bonnette che è così insicura, che media così poco autocompiacimento tra la rottura in gola e il singhiozzo in petto e la parola pronunciata.
Torna potente la vena punk rock emersa in Can't Maintain, e ditemi se l'uno-due iniziale acustico-elettrico The Michael Jordan of Drunk Driving-The Gift of The Magi 2: The Return of The Magi (titolo preziosissimo) non è una puntata d'adrenalina al cuore. L'uno-due è anche concettuale, perché se in Michael Jordan c'è una morte, in Magi c'è una resurrezione e reincarnazione in jedi (I used to be a dead guy, now I'm a fuckin' jedi), con annesso brainstorming di genialità e risentimento verso
- la gente: people are just fuckin' mean;
- iddio: so fuck God anyway, God is obsolete;
- la scienza: It's a miracle of science all this betrayal and violence;
- il verme solitario: just like a stupid fuckin' tapeworm;
- tutti voi: all you fuckers that I hate;
- un tizio a caso: We gotta get him in the van, well what if he resists? Just kick him in the back of the fucking head and put him in the back of the fucking van;
- la chirurgia plastica: you sold your soul to buy some tits and I sold my soul to grow a dick.
Ma tutto si può riassumere in If God doesn't like ugly, then God doesn't like anybody. E quando dico tutto, intendo proprio tutto in generale. Questo in due minuti di canzone. Tra l'altro, lasciatemi dire che il mandolino sul punk elettrico sta bene come gli spaghetti e le polpette sulla pizza.
In American Tune c'è il solito sarcasmo sui bianchi borghesi-repubblicani etero, che sarà pure un po' come sparare sulla crocerossa, ma ci sta.
Back Pack è uno splatter struggente, che non è mai facile. Invece Distance è quella cosa che tutti abbiamo provato quando l'amat* era in erasmus, in Etiopia a fare servizio civile, a far stage. La forma punk dritto pe' dritto (straightforward) forse allieva un po' quella sensazione di dolore patetico, lacrimoso e molto poco virile che solo la mancanza sa farti provare, ma Bonnette dice così: and it's harder to be yourself than it is to be anybody else. I wish that I was someone closer to you. Per ricordarci che non c'è rimedio al patetismo, quando lo si ha per vocazione.
Tra l'altro a metà canzone Bonnette fa una cosa commovente, che guai se la facessero nel blues, nel jazz, nel metal e nel prog: si scusa per l'assolo. Un gesto così semplice, ma di così estrema umanità. Mai che si sia sentito un Petrucci un Van Halen dire «sorry» dopo aver rotto le balle per dieci minuti. Questo peraltro è breve e carino.
Fucc the Devil è acustica, ermetica, ha un arrangiamento forse di cori campionati che somigliano a un kazoo col tremolo e che suonano bene nonostante tutto, una linea vocale da non dimenticare, metafore da non dimenticare tipo quella del scoparsi il diavolo in bocca, riferimento a Brotha Lynch nel titolo che mi ha fatto scoprire l'esistenza di una scena horrorcore rap. Come avevo fatto, finora.
Hate Rain on Me, solo per l'immagine del volere un proiettile abbastanza grande per poter uccidere il sole, quando non se ne può proprio più di canzoni sull'estate. If You Love in Your Heart per la melodia e perché è lo-fi. No One perché parla di canili di uomini e scopre un Bonnette capace di denuncia sociale, spirito colletivista e assistenzialista, sotto quella cortina misantropa che più di tanto non può reggere, senza ammacchiettare. Troppo sensibile e brillante, Bonnette, per diventare una macchietta dell'odio tutto e tutti, siete meglio voi. Sad Songs perché quando il suo mentore si sbaglia a chiamarlo Steve, fa sempre molto ridere.
Zombie by the Cranberries by Andrew Jackson Jihad anche solo per il titolo e perché non è veramente una cover di Zombie dei Cranberries. Che poi è la canzone più brutta mai incisa. In realtà è un ritorno al finger strumming furente acustico dei classici Andrew Jackson Jihad folk, e ancora una volta svela uno spirito caritatevole ben al di là degli spiccioli di resto mollati ai disgraziati e delle sigarette mollate agli scrocconi. ***SPOILER*** A un certo punto la canzone diventa When The Saints Go Marching In: non ho mai capito perché, ma mi uccide ogni volta.
L'ispirazione, l'atmosfera e il falsetto, lo Xanax, le sfighe, le schitarrate e il socialismo di Woody Guthrie, la paura di diventare adulti, la malinconia e il dramma di vivere, il Salad glove; riuscire a non essere mai retorici, sempre patetici, evidentemente sinceri. People II 2: Still Peoplin' è una di quelle dimostrazioni lampanti che nessuno scrive come Sean Bonnette.
Sorry Bro e Skate Park sono due ceffoni punk verso il gran finale, ma soprattutto Skate Park: il tempo si misura in canzoni dei Minutemen (che peraltro ci si sentono anche un po', nel riff un poco country-balera, nel bassismo meticoloso), i miglioramenti si misurano in ossa rotte e dolore. Ho trovato una foto di Sean Bonnette che skateava, da ragazzino, con la maglietta di Morrissey.
Free Bird vi canterà tutte le volte che pensavate di dovervi sentire felici, liberi e realizzati, per tutto o per qualcosa, ma puntualmente non riuscivate e non capivate perché. È anche il più malinconico un-due-tre/un-due-tre che abbiate mai sentito.
Big Bird è un capolavoro per troppi motivi. Solo voce:
I'm afraid of the way that I live my life, I'm afraid of the way I don't
I'm afraid of the things that I wanna do but I won't.
I'm afraid of God, I'm afraid to believe
And I'm afraid of all the loved ones that I've made leave,
I'm afraid that my dog doesn't love me anymore.
Poi entra tutto, una specie di orchestrazione digitale, tastieroni, fuzz ovunque, cassa. Lo schiaffo improvviso di epos musicale che perfettamente aderisce al dramma di essere un uomo affatto epico, molto normale. Solo un po' più sensibile della media. Uno che si squarcia il petto e canta, con la voce più bella che gli possa riuscire, le sue più ingenue, infantili inquietudini, da memento mori a terrore d'abbandono e solitudine. E non rinnega niente, e sente pesanti le sue radici e il giudizio degli altri, in un mondo che vien fuori come un inferno esistenzialista, senza però il vantaggio dell'immortalità. Ma il big red bird, la Phoenix di Sean Bonnette; la fenice che vive sotto la città sì che può bruciare e poi rinascere e fregarsene dei tormenti, degli affanni e dei giudizi dei mortali.
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