Mi ricordo nitidamente le impressioni che ho ricevuto la prima volta che ho ascoltato “Deus Ignotus”, sarà stata una settimana fa (beh, la memoria fa cilecca, ma fino ad un certo punto) e correvo nell'oscurità (niente di trascendentale: un po' di jogging dopo lavoro) ed arrancando pensavo: perché? Perché dopo una dura giornata di lavoro, uno va a correre (magari per liberarsi dalla tensione e dalle energie negative, non per attirarle a sé) e deve ascoltare questa musica? Se uno è stanco e non ha tanta voglia di andare a correre, ha bisogno di musica dinamica e variegata che pompi adrenalina nel sangue senza permettere al manto oscuro della noia si sopraffarlo, ma premendo il tasto play (faccio ancora uso del walkman) sapevo già che nell'ora che mi attendeva non sarebbe successo niente, o per lo meno niente che potesse supportarmi nella mia attività fisica. E mentre canti arcani, droni e percussioni echeggiavano selvaggiamente nelle mie orecchie, catturava la mia attenzione l'esile figura di una biondina in tuta celeste che sfrecciava via, e pensavo: chissà cos'ha nell'I-pod per andare così veloce? Ed intanto sirene anti-raid, percussioni marziali, un folle invasato che becera strazianti invettive nelle mie orecchie, e mi chiedevo: perché? Perché sono finito nel loop della musica in cui non succede niente? In cui niente scorre con facilità? Chi potrà mai liberarmi dalle oscure trame del neo-folk?

Ascoltato con calma, però, “Deus Ignotus” non è affatto male, anzi, nel suo genere può esser visto come un capolavoro, un'opera colta, coltissima, ma non per tutte le occasioni.

Andrew King è oramai diventato il braccio destro di Tony Wakeford, nonché un pilastro fondamentale degli odierni Sol Invictus: l'abbiamo sentito cantare in “Into the Woods” (lavoro solista di Wakeford), in “Ghosts” del progetto The Triple Tree (sempre con Wakeford), nell'ultimo album dei Sol Invictus, l'ottimo “The Cruellest Month” dello scorso anno. Sempre dello scorso anno è questo “Deus Ignotus”, terza opera solista sfornata sulla lunga distanza dallo schivo cantate inglese, dopo i buoni “The Bitter Harvest” (1998) e “The Amfortas Wound” (2003). Da quest'ultimo vengono ereditati il polistrumentista/produttore Hunter Barr e il percussionista John Murphy (nome noto negli ambienti neo-folk per le svariate collaborazioni, fra cui spiccano quelle con Death in June, Current 93 e Boyd Rice), entrambi già compagni nel progetto Knifeladder. A completare la rosa la violinista Maria Vellanz, il cui strumento si coagula alla perfezione fra le maglie di questa musica sostanzialmente non catalogabile: un sound massiccio che intende fungere da punto di contatto fra le suggestioni arcane ed universalizzanti della tradizione folk europea e le asperità dell'avanguardia industriale, un ossimoro se vogliamo, una stridente contraddizione che invece viene superata dalla sapienza e dalla sensibilità di un personaggio come Andrew King, uno che si muove solo se ritiene di dover dire qualcosa, e dirla bene.

Dotto medievalista, esperto della cultura e della storia anglosassoni, Andrew King mette in campo energie primitive che, lungi dal cozzare con un medium espressivo che fa ampio uso di suoni in loop, sequencer e field recording (e dove a dominare è lo schema del crescendo, in cui il martial-sound servito dall'estro dell'impeccabile Murphy è sicuramente un valore aggiunto), riescono a rinnovare la tradizione buia del medioevo e dei secoli appena successivi alla luce della contemporaneità, riscoprendo umori antichi che ci suonano invero terribilmente attuali. Una sorta di messa cantata celebrata nel bel mezzo di un truce campo di battaglia, dove però le forze che si scontrano sono le virtù e le umane debolezze. E' la natura umana, bellezza! E il quadro che l'attornia è un mondo di paure ancestrali e superstizioni in cui sacro (forte la presenza di quella cristianità di cui è intrisa la terra europea), pagano ed occulto si confrontano in un contesto in cui sangue, ferro e fuoco sconvolgono le esistenze e l'individuo si vede sopraffatto da una natura spietata, magica, assurda e dall'ineluttabilità di una Morte violenta che si cela dietro al mesto velo dell'incomprensibile.

“Deus Ignotus”, fatta eccezione della breve introduzione strumentale “Corvus Terrae Terror” (l'unico brano firmato da King) è quindi una serie di rimaneggiamenti di ballate, temi e testi della tradizione folcloristica europea, brani vecchi secoli che riprendono vita grazie alla accurata ricerca, anche storiografica, di un musicista che è più di un musicista e che si approccia alla propria materia artistica con il rigore scientifico e la passione del ricercatore. Per esempio il brano d'apertura “The Three Ravens” (vergato Thomas Ravenscroft) risale al 1600, mentre “Edward” (altro tradizionale, già rivisitato nell'ultimo Sol Invictus) addirittura al 1200. In “Sic Mea Fata Canendo Solor” viene persino rispolverata la Carmina Burana, in altri frangenti viene tirato in ballo il Nuovo Testamento, ma non starò qui a tediarvi con dettagli che, per chi fosse interessato, sono accessibili direttamente all'interno del booklet (costellato da esaurienti note che esplicano la genesi e lo sviluppo di ogni singolo pezzo, e completato da una folta bibliografia che mette in rassegna i numerosi testi consultati).

Giungiamo finalmente alla musica: date queste premesse, sarà lecito attendersi un folk apocalittico in stile Sol Invictus e Blood Axis. Ni: in “Deus Ignotus”, che pur richiama a sé certe atmosfere dei rispettivi ultimi album delle due entità appena evocate, non vi sono chitarre, non viene messo in scena un folk orchestrato dalla complessa stratificazione strumentale, non vi sono crooner che ci parlano dell'imminenza della fine del mondo. “Deus Ignotus” è un monolite oscuro e minaccioso in cui a dominare sono il suono greve ed oscillante di un harmonium e il fragore delle percussioni, il tutto condito dalle diavolerie elettroniche messe in campo da Barr. Al violino della Vellanz, che ci delizierà spesso con il suo vibrato, viene lasciato sostanzialmente un compito di rifinitura, salvo ritrovare una posizione di primo piano nella trascinante “Froleichen So Well Wir”, fra l'altro già esplorata in passato da King assieme ai già menzionati Blood Axis.

E' doveroso aggiungere tuttavia che tutto questo finisce per fungere da mero palcoscenico per l'estro tracotante di Andrew King, il cui fiero e belligerante lamento baritonale (solo sporadicamente accompagnato da cori operistici e dall'ugola fatata della Vellanz) si cuce il ruolo di protagonista assoluto. Il suo canto è da panico, arriva a vette interpretative impensabili, è un ruggito inverecondo che si perde nel fango dei secoli, è irruente come il grido di battaglia di un comandante di un esercito, dolce come il soliloquio dell'anima solitaria di chi guarda alla luna ponendosi quesiti irrisolvibili; si fa aspro, evocativo, teatrale, ora incalzato dall'impeto dei tamburi (“Judas, “Sir Hugh”), ora coinvolgente e recitato, accompagnato dal torbido fluire di tastiere (“The Wife of Husher's Well”), ora allucinato e sopra le righe (“In Upper Room”), concedendosi persino delle parentesi senza l'accompagnamento musicale (la già citata “Edward” e la tediante “Lord Level”, per sola voce).

In una parola: fenomenale.

Ma tornando ai quesiti iniziali: sono finito in un bel guaio, questa non è musica facile. Ma una volta che il confine viene oltrepassato, sarà ben difficile ritornare sui propri passi.

Felice di essere piombato in questo labirinto.

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