Fin troppo facile omaggiare Monk. E, con un brano qua e uno là, oppure con dischi interamente dedicati, l'han fatto quasi tutti, soprattutto -com'è ovvio- i pianisti.  Qui però la cosa è anomala, per molti motivi: siamo alla fine degli novanta (anni poveri, troppo tardi per vere novità e troppo presti per veri revivals), lui è un chitarrista e soprattutto è noto al mondo per essere un ex poliziotto. E la reunion dei Poliziotti era ben là da venire. Anzi: sembrava la cosa più impossibile del mondo. Se, quando comprai questo disco, m'avessero detto che otto anni dopo avrei rivisto i Police in uno stadio, perdipiù in formissima, beh, non ci avrei ami e poi mai creduto. Tutto cambia e tutto è cambiato, da allora: il Delle Alpi, stadio giovanissimo e già tutto da rifare, l'Inter campione d'Italia, i Police riuniti....mai dar nulla per scontato... Fatto sta, però, che l'era Police era lontanissima, Copeland si dedicava prevalentemente a colonne sonore e partecipazioni sporadiche qua e là, e Sting sfornava dischi solisti uno dopo l'altro e uno più patinato e fighetto dell'altro. Lui, Andy Summers, sembrava l'ala seria del trio, il più vecchio, il più saggio, e dunque piacevolmente il più estraneo ed indifferente al mercato e alle sue logiche spietate. 
Dunque, dopo una manciata di dischi fusion/jazz molto particolari, dove il suo tipico "chitarrismo" si mischiava a ritmiche funk/fusion, spesso condite da basi percussive sapienti e latineggianti (o, a volte e come nell'antichità, "reggaeggianti") eccoti l'imprevedibilità di un disco interamente dedicato alla musica del mai troppo lodato e compianto Thelonious. E la cosa, se ci si pensa bene, è tutt'altro che balzana. Se Monk aveva un pianismo percussivo, imprevedibile, spesso sbilenco ma sicuramente estremamente ritmico, così Summers ha, col proprio strumento, caratteristiche simili, anche se naturalmente aggiornate all'epoca ed alle esperienze di chi quelle dita ha il destino di portarsele sulla mano. Anche lui ha un fraseggio "sbilenco" (l'ha sempre avuto, anche nei soli dei Police), anche lui è spesso piacevolmente imprevedibile e, soprattutto, anche lui è intrinsecamente ritmico. Non parliamo però di quel ritmo semplice, potremmo dire banale, che si sfoga nel tenere una semplice e magari perfetta ritmica d'accompagnamento o nel fraseggiare il proprio assolo mettendo tutte le notine nel posto giusto al tempo giusto, ma di quel ritmo difficilissimo da spiegare a parole, che è implicito in un silenzio, nell'infinita e vicinissima distanza tra due note o tra due tagli d'accordi. In questo Monk e Summers sono estremamente simili, pur nella loro incredibile diversità storica e personale. Entrambi sembra vivano di musica e del ritmo della musica e delle cose in generale. C'è qualcosa di estremamente naturale nel pianismo dell'uno e nel chitarrismo dell'altro, pur potendo apparire entrambi, e ingiustamente, ostici.
Da notarsi, in questo disco che "suona" benissimo nello stereo, regalando grandissimi libidini, la ritmica sempre perfetta di Peter Erskine, oltre ad una comparsata di lusso, ovvero il secondo dei tre, quel secchioncino di Sting che ha saputo farci godere e irritare e farsi amare e odiare forse come nessun altro, così propenso a fare cose grandissime e piccolissime, accoppiate storicamente fondamentali (Gil Evans) ad altre di cui vergognarsi a vita (Puff Daddy o come stracazzo si chiama adesso). Qui fa semplicemente quel che deve fare, cantando con voce assolutamente perfetta la partitura più abusata e forse più bella del grande pianista, intorno a mezzanotte. Il resto è un campionario di partiture conosciutissime di Monk, e comunque, e solo già per questo, assolutamente mai banali, interpretate con intelligenza, maestria, originalità, giusto timore reverenziale ma nessuna vera timidezza.  Da un maestro d'allora e sempre a un maestro di oggi.

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