Gli anni ottanta, per molti, hanno rappresentato un decennio da depennare dagli annali del rock. Probabilmente non la pensa allo stesso modo chi in quel periodo ha vissuto la propria adolescenza e la propria maturità. Insomma come in tutti i dibattiti le correnti di pensiero si sprecano e diventa oltremodo stucchevole disquisire se, quel lasso di tempo, sia invero stato musicalmente più deleterio rispetto al prima e al dopo.
Il disco che ho scelto di presentarvi quest'oggi risale, guarda caso, al 1986. E' l'esordio di un ragazzo poco più che ventenne proveniente da Belfast che fin dalla copertina sembra volerci chiaramente svelare le sue influenze. Sfido chiunque ad abbinare agli anni ottanta quel "povero" scatto in bianco e nero, nonché la grafica, con i titoli in bella mostra sul fronte anziché sul retro (a proposito gli anni ottanta sono quantomeno discutibili anche in fatto di look).
Piuttosto l'accostamento d'acchito che evoca l'artwork è quello con il Bob Dylan dei sixties, quello del Village che si propone come nuovo menestrello per una nuova generazione di ascoltatori. Anche lungo tutti i dieci brani del disco l'aria pregnante che si respira è quella del cantautore impegnato. Non è un caso che il Nostro si cimenti, oltre che al canto, anche alla chitarra e all'armonica, strumenti per antonomasia del cantautore doc.
Rispetto a Bob Dylan risulta evidente l'uso di una maggiore strumentazione e alcuni brani suonano leggermente irish oriented avvicinandosi a tratti a certe ballate in stile Waterboys.
I testi non lasciano spazio ai sentimentalismi, parlano di soldati di ventura, di whisky tracannati per dimenticare, di omaggi alla sua città come nella immensa, conclusiva, "The Big Rain", dell'annoso e mai sopito scontro fra protestanti e cattolici nella velenosa "Religious Persuasion" e le poche volte che apre all'amore lo fa con il piglio autoritario di chi è pronto a soffrire vivendo più nei ricordi che nel presente.
E' impressionante la maturità che Andy White mostra in questa sua opera prima, facendola vibrare dalla prima all'ultima nota di una forza interiore degna dei più grandi.
Non durerà a lungo. Già nel successivo "Kiss The Big Stone", non fosse per un paio di guizzi di classe, la dea ispiratrice inizierà a voltargli le spalle, per abbandonarlo definitivamente di lì a poco fino a relegarlo frettolosamente nell'oblio, nonostante sia ancora in attività con una dozzina di album alle spalle. Ma è con questo folgorante esordio che Andy White ci risveglia da quel periodo plastificato e meravigliosamente ci riporta, in un immaginario viaggio a ritroso, a quei mitici anni sessanta.
Carico i commenti... con calma