Ogni generazione di americani ha la propria guerra.
E l'industria cinematografica ringrazia.
A quattro anni abbondanti da Vita di Pi, Ang Lee torna sul grande schermo. Trasformando in immagini l'omonimo romanzo cult, acclamato dalla critica, di Ben Fountain. Arricchendo inoltre la già nutrita filmografia riguardante, in un verso o nell'altro, il conflitto iracheno d'epoca Bush jr. Ma, piuttosto che il punto di vista "interno" di autori come Eastwood o Linklater (a proposito: bellissimo il suo Last Flag Flying, da cui ho preso spunto per l''incipit di recensione), era particolarmente interessante lo sguardo proprio di un artista come Lee; taiwanese, americano d'adozione fin da prima che fosse regista: da sempre, di fatti, tra i due mondi. Taiwan e USA - provincia, metropoli -, cultura d'origine e cinema americano - indipendente, hollywoodiano. Ang ha davvero attraversato tutte le possibilità ed i territori nel corso di una carriera esemplare. Ed ora, davanti alle più americane tra le tematiche: guerra, sacrificio, patriottismo, celebrazione - talvolta vera e propria, strumentale, costruzione - mediatica dell'eroe.
Sul suolo più amato/odiato/sognato/ipocrita/contraddittorio del mondo occidentale come quello statunitense, dove tutto è affare, media, spettacolo, consumo, niente è - e neppure paradossalmente - più naturale che gli estremi si incontrino sulla stessa via. Guerra e superbowl. Bombe, esplosioni, pallottole e morti su quel lato di trincea; cheerleaders, (strafottenti) ballerini, coreografie, megaschermi, fuochi d'artificio, Beyoncè in questo lato una volta tornati a casa. Giusto il tempo per una piccola tournée, culminante con una sfilata ad uso e consumo del popolo del football. E poi, il film celebrativo. Ad uso e consumo, questa volta, del popolo della notte dell'Oscar.
E non importa che poco, nel film, sia lasciato all'immaginazione, a riguardo di questa parabola tipicamente a stelle e strisce.
Il film di Lee è un prodotto ineccepibile, come sempre (o quasi) per quanto riguarda le opere del regista due volte Leone d'oro (negli anni '00) e due volte Orso d'oro (nei '90). Lo stile, il montaggio e l'uso perfetto dei flashback rendono scorrevolissima e mai pesante la narrazione, non lineare (ma senza masturbazioni di stampo nolaniano), di un argomento affatto semplice per quanto trattato molte altre volte; così i dilemmi ultimi di un protagonista catapultato nella realtà medio-orientale, come per molti altri suoi pari, per caso, più che per congenito amor di nazione e senso del dovere di patriota (come invece fu per un Chris Kyle, tanto per non fare esempi), o shock post 9/11, sono i dilemmi di un normale ragazzo che non sa se restare con la sorella (una Krysten Stewart che amo sempre di più) o ripartire subito e non lasciare i compagni. Se tornare per prendersi una pallottola "already been fired" oppure aspirare al farsi una vita sentimentale e delle sanissime e soddisfacenti scopate con la cheerleader dai begli occhioni.
Ma il film è anche, se non soprattutto, oltre alle diverse cose, una riflessione su questa stessa industria cinematografica (di cui sopra) che crea, compra, vende e consuma miti alla velocità della luce. Lo specchio di una cultura dove quando la leggenda diventa realtà, vince la leggenda. Come nell'iconica e definitiva massima fordiana. Come nel caso della battaglia di Alamo e degli "eroici ragazzi texani"
Un popolo di eterni ragazzi, pronti a perdere l'innocenza da un momento all'altro. Nel frattempo, curiosi verso chi combatte e uccide ma senza afferrare mai il vero senso della realtà fin quando non lo vivono in prima persona.
Accolto forse fin troppo tiepidamente (ma riscattato recentemente dall'inserimento nella top 10 dell'anno dei Cahiers), Billy Lynn's Long Halftime Walk, seppur con qualche momento didascalico, e nonostante non sia probabilmente tra i suoi migliori prodotti (parliamo d'altronde dell'autore di Brockback Mountain, Il Banchetto di Nozze, La Tigre e Il Dragone) è l'ennesimo lavoro di grande spessore di un grande regista, quale Lee è e continua a essere. E se persino Vin Diesel si ritaglia un ruolo per una volta diverso dai suoi classici standard...
A onor del vero, bisogna riconoscere come l'esperienza, se non vissuta in 3D (come nel mio caso) perde di completezza, essendo il film pensato e realizzato appunto in tre dimensioni (tecnologia ormai cara a Lee), ma nonostante questo, l'emozione mi è comunque giunta.
Dopo tutto... (it's) Just another normal day in America, Billy.
Just another normal day in America.
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