Ci ho messo un bel po’ di tempo per andare a vedere “Avatar”; come uno spocchioso snob non avevo voluto cedere subito alla moda del momento e ricordo pure che quando uscii dal cinema cercai di minimizzare l’entusiasmo, il deciso pizzicotto provocato dall’aver assistito ad uno spettacolo visivo rivoluzionario. Un lavoro studiato appositamente per la terza dimensione. Attaccai la trama del film, che a voler essere buoni la si può definire insulsa se non di una banalità disarmante, dimenticando che per il regista, nel primo vero film in 3D, era importante che gli occhi non avessero altre distrazioni. Per un successo planetario da fuochi d’artificio era necessario un percorso lineare e immediato: cattivi, cattivissimi contro buoni, buonissimi con qualche tonnellata di retorica ed ecologico messaggio che va tanto di moda come ciliegina sulla torta.

“Vita di Pi” è uno dei pochi film che può tenere testa (forse assieme ad “Hugo Cabret“) a quei livelli visivi con un utilizzo per nulla gratuito della terza dimensione unito ad una fotografia commovente del cileno Claudio Miranda. A differenza di Avatar, il film di Ang Lee non è solo una scatola vuota, ma una pellicola interessante, capace di commuovere e colpire lo spettatore con una storia apparentemente banale che alterna dramma, avventura, religione e filosofia e può essere fruibile ed appagante ai diversi livelli di interpretazione. Mi piacerebbe leggere il libro che per trama, temi ed ambientazione (quel navigare alla deriva in un mare sempre più calmo e bianco), riporta all’enigmatico e filosofico romanzo “Gordon Pym“ di Poe. V’è un citazionismo forse nei confronti delle scene naturalistiche di “Three of life” di Terrence Malick, ma sono due film distanti anni luce. Per fortuna, aggiungo io.

Piscine Patel, il protagonista di questa storia, è un ragazzo intelligente, curioso, tenace e pieno di risorse: è grazie a queste qualità che è riuscito a scrollarsi di dosso un nome di battesimo terribile (assonanza con il liquido ambrato prodotto dai reni) sul quale i suoi compagni di classe si erano naturalmente avventati come un branco di fameliche iene per sputtanarlo senza ritegno. Pacifico e calmo nei modi Pi, questo il suo nuovo nome, è un ragazzo che ascolta ma che non beve gli insegnamenti che riceve dalla famiglia e dalla scuola in modo passivo e pappagallesco; senza rumore e grida si scontra con la fredda, rigida, grigia e matematica visione razionalistica della vita del padre. Pi è induista, ma anche cattolico e islamico: non vede perché una religione ne debba escludere un’altra visto che tutte hanno degli elementi positivi. Vive a contatto con gli animali dello zoo cittadino, il cui custode e proprietario è proprio suo padre, ed è convinto che tutte le creature abbiano un’anima. La comprovata ferocia assassina della temibile tigre del Bengala, Richard Parker il suo nome, metterà in dubbio per qualche tempo la sua ferrea convinzione iniziale.

Per una serie di sfortunati e spettacolari eventi (cfr. "Titanic") Pi si troverà a strettissimo contatto con il temuto felino, insieme ad una zebra, un orango ed una iena. Ma il fulcro del film, ben evidenziato dalla locandina, è il rapporto e la coesistenza forzata tra il ragazzo e la tigre. Il protagonista, ovviamente, riuscirà a sopravvivere (non è spoiler perché lo capiamo dal flashback della prima scena) ma quello che interessa è vedere come vi sia riuscito date le eccezionali circostanze. Il giovane è una persona che non butta via niente e in una situazione disperata alternerà il suo naturale approccio romantico e positivo alla vita con quello più razionalistico datogli in eredità dal padre. La tigre indomabile, quindi, come l’incarnazione dei pericoli quotidiani dai quale era sempre stato messo in guardia; ma anche una costante speranza ed irrazionale gratitudine nei confronti di Dio per tutti quegli eventi, solo apparentemente avversi, che lo porteranno a terra.

Interrogato dai periti della compagnia della nave naufragata Pi sarà costretto ad offrire una seconda versione dei fatti nella quale gli animali verranno sostituiti, in base alle caratteristiche comportamentali, da un marinaio, la madre e il cuoco. Come a sottolineare il fatto che le differenze tra uomo e animale siano molto più sottili di quel che possa apparentemente sembrare. Non può tuttavia sfuggire come nel secondo racconto, probabilmente quello reale, manchi all’appello un personaggio. La mia interpretazione è che nella prima versione Pi incarni la religione stessa che, alla fine, altro non è che un racconto che tende ad abbellire, adornare e reinterpretare la realtà: un po‘ come le splendide immagini della natura presenti a più riprese nel film. Pi è tutte le tre divinità che ha studiato e nelle quali ha fede; è lui infatti che, senza chiedere niente in cambio, salva più volte la tigre da una morte certa e che quasi si disfa dal dolore quando questa si allontana senza nemmeno un ringhio di saluto.

E’ un film che solo apparentemente è una semplice storia d’avventura con un grande lavoro visivo, di regia ed effetti speciali, e che in realtà è molto cazzuto e profondo. Il senso forse consta nell’invitare a limitare un eccesso di razionalismo e prendere la vita con maggiore semplicità, affidandosi anche alla fede. Non credo sia necessario condividere questo invito, il mio caso, ma sono convinto che non sia tempo sprecato guardarlo e perdersi in una delle tante sfaccettature che propone. Magari in una che non ho nemmeno colto.

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