Mi ricorda vagamente la copertina dell'edizione inglese di "Aftermath". Solo che qui non sono gli Stones a guardarci dal basso, ma tre ragazze dei sobborghi di Osaka, in posa per l'uscita del loro disco di debutto (anno: 1991). La prima a sinistra, quella coi pantaloncini, si chiama Mineko Itakura; ed è qui la leader di un terzetto che a tutt'oggi risulta forse la migliore "all-female band" mai ascoltata dalle parti del Sol Levante. Molte le giapponesi musiciste, molte anche quelle meritevoli di certa considerazione, poche quelle che (come le Nostre) hanno prodotto 4 album senza titolo, uno più bello dell'altro, solo numerati (probabile allusione ai Led Zeppelin? O forse, per restare in Giappone, ai Fushitsusha di Keiji Haino...? - d'altra parte Mineko potrebbe essere la fidanzata ideale di Keiji, e considerata la proposta non ci metterete molto a capire il perché).

In una parola: psichedelia. Di quella suonata bene, magistralmente anzi, fra chitarre acidissime e ritmi malati, confusi, allucinati. Aperture "cosmiche" di teutonica memoria a rivelare quadri strumentali complessi, multiformi e traboccanti di colori: dalla floreale (e primaverile) distensione della psichedelia del '67 (quella dei Love e dei Pretty Things) alla distorta, animalesca ferocia dell'Hard-Psych post-'68 (Iron Butterfly su tutti, ma anche i CCR di "Suzie Q" e l'anarchia di krauti come Ash Ra Tempel - quelli più "chitarristici" - e Guru Guru). Mineko suona il basso come lo suonava Jack Casady, imbevendo di Fuzz linee contorte fra Blues e Raga, ma canta (nella sua lingua) con una vocina inquietante, delicatissima, da cantante di Enka più che da Rock-singer. Ed è proprio questa "giapponesità" di fondo a rendere irresistibile la loro musica, pur nell'immancabile citazionismo di tutti i loro dischi - l'intro del terzo album, per esempio, richiama in maniera impressionante l'impasto sonoro della santaniana "Going Home", con le chitarre a sostituirsi agli organi dell'originale; mentre, su questo, il tema iniziale di "Underground Railroad" ricorda molto da vicino, nel suo utilizzo delle scale Flamenco, "White Rabbit". Le chitarre sono tutte suonate da Mine Nakao, che manco a dirlo è una che usa il wah wah a volontà e improvvisa sulla stessa linea dei Maestri di San Francisco.

Ma i punti di contatto con certa Bay Area si fermano qui, perché strutturalmente parlando i pezzi sono tutt'altro che monotonali pretesti per "jammare" su interminabili canovacci; sorprende, ed è il lato più "progressivo" delle tre (non a caso hanno fatto da spalla persino ai Gong), la tendenza ai cambi di ritmo e tonalità: non vere e proprie jam, quindi, ma - mi sia passato il termine - sorta di "mini-suite" multi-tematiche e dense di evoluzioni, progressioni, spunti strumentali. Ma ci sono anche canzoni, nel vero senso del termine, per quanto stravolte e "sporche" possano suonare: "Why Don't You Take A Sight-Seeing Bus With Me" è la cover di un vecchio pezzo beat giapponese, e se l'avesse ascoltato Tarantino l'avrebbe infilato in una sua colonna sonora; anche "My Dream", tutto sommato, potrebbe essere una canzonetta Pop, se non fosse che le chitarre "drogate" (non una, ma più strati sovrapposti) e la voce riverberata di Mineko rendono quei tre minuti a dir poco agghiaccianti. Il meglio sta comunque in "I'm Sure To Meet You" e in "Crazy Blues": due lunghissime cavalcate, iperestese fino ai dieci minuti. Qui capirete davvero, mi sento di dire, il significato del "pesante sciroppo" (dolce, ma anche amarissimo a fasi alterne) cui il nome della band allude. Godimento assoluto.

Dopo questo primo album cambieranno batterista e diventeranno quartetto con l'aggiunta di una seconda chitarra. Magari ne riparleremo, ma intanto beccatevi - se volete e se ancora non vi ho stufato - quest'altra mia scoperta dall'Estremo Oriente. Fatemi sapere. 

 

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