Tempo fa, durante una di quelle sere in cui non si sa che fare, ho acceso la Tv su Rai Tre proprio nel momento in cui Fabio Fazio, simpatico presentatore/autore di “Che tempo che fa”, stava presentando Angelo Branduardi ospite in studio. Folta chioma di capelli (grigi), pantaloni stile menestrello medioevale, scarpe a metà strada tra il naif e il surreale, il buon Branduardi, a metà intervista, incalzato da un Fazio stranamente acidello, asserisce, a spron battuto, che “molti musicisti di oggi non riconoscono un Do da un Fa”. O buon Cielo! A questo ci siamo ridotti? Deve intervenire Branduardi in televisione per aprirci gli occhi: suvvia, lo sanno pure i bambini che la stragande maggioranza dei musicisti nostrani non sa distinguere un Do da un Fa (e qualcuno, forse, non distingue nemmeno un papiro da uno spartito musicale). In fondo, non è un mistero, la nostra cultura musicale è ferma ai tempi di Claudio Villa e Gino Latilla. Quando qualcuno in Italia (si pensi al primissimo De Andrè o al maturo Battisti di “Una donna per amico”) cerca di imporre atmosfere musicali meno banali e più fantasiose riceve spesso critiche negative, salvo poi riconquistarsi lo scettro della genialità grazie ad una tenace e caparbia rivalutazione da parte di intellettuali, critici musicali o semplici amanti del più geniale uso dello spartito musicale.
Detto ciò, vorrei ricordare a tutti gli utenti di DeBaser (I love you DeBaser!) che Branduardi non è né un mito, né un genio. Non basta una frasettina, per quanto sconcertante, ringhiata fra i denti in una trasmissione Rai per essere considerati ‘autori a tutto tondo . Sì, d’accordo, la discografia "branduardiana” è sicuramente curiosa e variopinta: dopo essersi recato “Alla fiera dell’ Est” e aver acquistato “La pulce d’acqua” il nostro non ha esitato nel cogliere “La prima mela”. Bel modo di vivere la vita: non c’è che dire.
Eppure, dopo dieci anni di sviolinate e suoni finto-medioevali, anche Branduardi ha cominciato a stancare. Gli anni Ottanta non hanno lasciato nessun segno significativo e nei Novanta le ballate vagamente misticheggianti hanno lasciato il posto a canzoncine di bassissima lega (“Il giocatore di biliardo” o “L’apprendista stregone” sono, ambedue, firmate da Branduardi e Giorgio Faletti: sì Faletti, quello di “Minchia signor tenente” chiedo perdono se "Io uccido”).
“Pane e rose” esce nel 1988 e io, da vecchio branduardiano nostalgico, lo vado subito a comperare. Nonostante otto anni di delusioni penso: “Questa sarà la volta buona”. Vedete: io acquisto (e acquistavo) i dischi, oggi CD, in un lussuoso negozietto di via della Moscova (Milano, zona Corso Como, qualcuno ha presente?) e mi sono sempre fidato del proprietario del suddetto lussuoso negozietto. Quella volta, saggiamente, mi consigliò: “Non è nel mio interesse, però ti voglio confidare un segreto: ‘sto disco di Branduardi fa abbastanza cagare”. Nonostante tutto, malgrado la fiducia riposta nel negoziante, io il disco lo acquistai comunque.
Quando ebbi il piacere (o il terrore, fate voi) di ascoltarlo mi resi conto di due cose: 1) il negoziante aveva, forse volutamente, esagerato col giudizio; 2) Branduardi stile menestrello era morto, finito.
“Pane e rose” non è un disco orrendo, e non fa nemmeno cagare. Semplicemente, non è assemblato come dovrebbe: a canzoni malinconiche e vagamente drammatiche si alternano, senza un vero perché, composizioni buffe o, in alcuni casi, persino comiche. Il violino è sempre caldo, sempre su di giri: quando Branduardi sposta l’archetto sulle corde dello strumento è impossibile non udire, almeno per un momento, una sorta di brivido felino salire dalla schiena fino al cervello. Le musiche sono sempre emozionanti, a tratti forse un po’ risapute, ma pur sempre grandiose.
Banali, irritanti, a volte ridicoli i testi. Strano, veramente molto strano: quando Branduardi cantava “Alla fiera dell’Est” sapeva mescolare brillantemente arcaici sofismi con eleganti ‘italianismi’. “Pane e rose” sembra il lavoretto un po’ sbilenco di uno studentello svogliato e incapace. Non è un caso che l’unico testo veramente riuscito sia quello di “1 aprile 1965” in cui Branduardi rilegge una emozionantissima lettera d’addio che Che Guevara scrisse ai genitori (“Padre da molto tempo non scrivevo più / gli anni sono passati ma io non sono cambiato mai / saluto tutti voi, un bacio a tutti voi / e ricordatevi di me, e io ci riuscirò”).
Ma una canzone su dieci, per un branduardiano di vecchia data, è poco, troppo poco.
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