Ci sono album che non vale la pena rispolverare, album la cui riscoperta non costituisce un importante recupero storiografico, bensì un inutile ritrovamento, od addirittura un gesto controproducente, laddove questo gesto ha il demerito di inflazionare un presente discografico ricco di futili lavori che il tempo giustamente condannerà alla dimenticanza.

Il tempo è infatti spesso animato da un'intrinseca giustizia, la selezione naturale (realmente naturale) spesso preserva quello che effettivamente ha un valore, uccidendo il resto; il tempo è anche clemente, e a volte aiuta a riscoprire ciò che il passato non era riuscito a comprendere.

Poche sono le vere vittime del tempo, e di certo fra queste vittime non annovero gli Angizia: la selezione naturale li ha dissolti nelle polveri del tempo, anche se esistono ancora e continuano a pubblicare album nel silenzio più assordante. Non che gli album degli Angizia siano brutti, anzi, sono molto belli ed originali. Semplicemente non sono emersi, continuano a non emergere ed anche oggi è difficile rivalutarli: una loro riscoperta non fa gridare al miracolo, non fa pensare “caspita quanto erano avanti questi”, forse non è ancora tempo per loro, probabilmente non lo sarà mai.

La mia collezione è piena di album del genere, meteore che hanno sbrilluccicato nel lasso di tempo di una scoreggia, e come un tempio di scoregge la mia collezione comprende anche questo “Das Tagebuch der Hanna Anikin”, che riascoltavo proprio in questi giorni per ridargli vita sulle generose pagine di DeBaser. Roba che poteva benissimo marcire nella polvere, tanto che non ho trovato nemmeno una pagina in italiano sulla rete per meglio raccontarvelo. E ricordo che all'epoca l'avevo trovato pure intrigante (questa sorta di gothic-metal bislacco), ma tolto dalla sua epoca non si è rivelato possedere le qualità del buon vino che invecchiato diventa anche meglio.

Ma chi sono infine questi Angizia, il cui nome ricorda piuttosto una bevanda analcolica? Gli Angizia sono un collettivo di musicisti austriaci che ruota attorno alla figura di Michael Haas, in arte Engelke. Il progetto viene concepito nel 1994, in anni in cui Haas si può definire più uno scrittore che un cantante. Non a caso tutti gli album degli Angizia originano da suoi racconti e finiscono per svilupparsi nella tortuosa sceneggiatura di un vero e proprio dramma in più atti. La musica degli Angizia è quindi una sorta di operetta a più voci in cui a predominare è il pianoforte classicheggiante di Cedric Muller (in arte Szinonem), all'epoca solo un sedicenne che frequentava il conservatorio a Vienna. Insomma, si sarà capito che chi ha amato le bizzarrie dei vari Therion ed Arcturus, certo troverà pane per i suoi denti, anche se gli Angizia sono metal solo per modo di dire. Potremmo perfino definirli black metal, se si considera il latrato da cane che qua e là imperversa fra i solchi di una musica che in verità è più vicina alle movenze di un lied schubertiano. La batteria scoppiettante di Henning e la fievole chitarra elettrica di Emmerich Haimer (poca roba nell'economia del sound dei nostri) completano il nucleo originario della band, che nel tempo si avvarrà di un contributo crescente di musicisti di estrazione classica.

Nel 1996 esce così il primo full-lenght “Die Kemenaten Scharlachroter Lichter”, il cui titolo impronunciabile certo non aiuta a rendere immortale il nome della band: la musica in esso contenuta è assimilabile al filone gothic-doom in voga all'epoca, e certo veniva da accomunarli alle formazioni più pompose e romanticose del genere (in nome su tutti, i Theatre of Tragedy del loro insuperato debutto), ma già si capiva che le analogie si fermavano in superficie, poiché gli Angizia erano molto più vicini, nella sostanza, alla musica classica che all'universo metal, pur conservando chitarre elettriche e sporadici screaming. Il risultato è nel complesso suggestivo, seppur altalenante ed a tratti soporifero, vuoi anche per l'estenuante durata delle composizioni.

Ed eccoci finalmente a “Das Tagebuch der Hanna Anikin”, folgorante atto secondo: è il 1997 e la band riesce a concentrare le proprie idee in una forma meno dispersiva. I brani son pur sempre lunghi e complessi, ma suonano più densi e compatti: densi perché non potete capire la quantità di idee in essi contenute; compatti perché le idee vengono anche ben sviluppate, perfettamente amalgamate nella trama narrativa tessuta dal sempre fecondo Engelke.

Rimanendo saldi all'impianto narrativo, l'opera apre la cosiddetta trilogia “russa” (seguiranno “Das Schachbrett des Trommelbuben Zacharias” e “39 Jahre fur den Leierkastenmann” - non potete capire la fatica nel copiare questi titoli), sentito tributo di Engelke alla letteratura russa del diciannovesimo secolo. Ascoltare la musica degli Angizia, infatti, significa essere catapultati nei salotti sfarzosi descritti dei vari Tolstoj e Dostoevskij, teatri di accalorate dispute sui grandi sistemi, assurdi dialoghi fra grotteschi personaggi, sguardi maliziosamente incrociati e le nevrotiche azioni/reazioni di folli alchimie sentimentali. Nel quadretto non poteva quindi mancare la protagonista femminile, il soprano di razza Irene Denner, chiamata ad impersonare l'eroina partorita dalla mente fervida del paroliere della band, niente meno che l'Hanna Anikin del titolo.

La Denner è ben più della solita sirena goticheggiante prestata al metal, e, forte delle sue invidiabili doti vocali, saprà deliziare per tutti i tre quarti d'ora dell'opera, svettando fra le tonanti arringhe di Engelke, l'aspra ugola di Christof Niederwieser (prestato dagli avant-black-metaller austriaci Korova) ed il tenore Mario Kraus.

A fare il resto è il background classico di Szinonem; la mutevole batteria e la chitarra dell'anonimo Haimer si limitano ad andare dietro al suo continuo "minuettare": la musica che ne viene fuori è grottesca ed enfatica, perfino buffa a tratti (è una cosa simpatica sentir dialogare il conte Grishnackh e Pavarotti), ma mai ridicola; e certi passaggi sono a dir poco eccezionali, per sensibilità e raffinatezza più vicini alla profondità della musica classica che al metal più audacemente progressivo (anche se spesso saltano alla mente le eleganti evoluzioni del duo Sverde/August del memorabile “Aspera Hiems Symfonia” degli Arcturus). Se gli Angizia hanno un pregio, è infatti quella di non scadere nei sempiterni cliché del genere: coerenti con una visione artistica che si pone al di fuori di ogni paragone nel mondo del metal, la loro musica è talmente originale da non essere catalogabile ma, ahimè, nemmeno dotata di quel tocco di furbizia che avrebbe conferito maggior appeal ad un prodotto di indubbio valore. Un prodotto che rimane innegabilmente (forse eccessivamente) legato al concept lirico ed alle trame narrative scrupolosamente cucite da Engelke, che è il primo a ritagliarsi il ruolo di invisibile sceneggiatore, lasciando ampio spazio agli altri cantanti chiamati a prestare voce al suo racconto.

Insomma, tutto molto sublime, anche se sinceramente questa musica, poco potente, troppo poco evocativa, forse troppo didascalica, fa fatica a trovarsi un varco fra i solchi della mia esistenza di oggi. E penso sia lo stesso per la maggior parte di voi, che senz'altro preferirete intrattenervi con ben altro, considerata la fitta giungla di musica (più o meno buona) che ci avvolge.

Un plauso quindi all'originalità: un'originalità che tuttavia non strappa gli applausi delle folle, e forse, nemmeno il battito solitario delle mani di chi ama percorrere in solitudine le correnti più controverse.

Un inutile ripescaggio in definitiva, ma se anche uno solo di voi troverà l'ardire di avventurarsi nel barocco e patinato mondo degli Angizia, io mi riterrò soddisfatto.

Carico i commenti...  con calma