Gli Animal Collective sono in costante movimento. 

L'essenza del loro suono emerge dai loro live che non sono mai gli stessi ma si evolvono continuamente. Erano due anni che suonavano le canzoni di SJ dal vivo in una forma o in un altra. Adesso, se andate a vedere un live degli AC queste canzoni sono già il passato: stanno già suonando, in una forma o in un altra, le canzoni del prossimo album. Le registrazioni ufficiali sono quindi necessariamente delle approssimazioni di una camaleontico animale che non sta mai fermo e perciò spesso sfuocate. Belle ma sfuocate. In fondo ci sono fotografie sfuocate molto belle, é una tecnica fotografica con una sua dignità! 

Strawberry Jam li vede nel tentativo di mettere a fuoco meglio il loro sound attuale che è più tendente al pop rispetto al già song-friendly "Feels". Eliminate infatti le lunghe digressioni oniriche degli album precedenti, l'album riduce ogni suono, vecchio e nuovo, al formato canzone. Il risultato è più che convincente e funziona prima di tutto grazie alla maggiore varietà del menu sonoro proposto. L'impressione è quella di un gioioso carnevale dove diversi stimoli e colori vengono unificati a formare un tutto coerente e dotato di senso. In effetti la spinta verso il formato canzone non sembra dovuta a una banale voglia di commercializzazione, bensì all'esigenza di costruire album più coerenti e scorrevoli che in passato. SJ è l'album che si ascolta meglio come un tutt'uno, dall'inizio alla fine, l'album che ha la scaletta migliore nella scelta della sequenza, l'album che insomma funziona meglio nella sua totalità.

Si parte con una filastrocca psichedelica, "Peacebone", una roba che io intendo come uno scherzo riuscito, la "Bike" o la "When Im 64" degli AC, con le dovute differenze di sensibilità musicale e stilistica sia chiaro. Il cuore pulsante dell'album sono i pezzi come "For Reverend Green" e "Fireworks" che definiscono una nuova direzione musicale, per certi aspetti più tradizionale rispetto alle folli ricerche del passato, ma non pacificate, non banali, anzi offrono sguardi disturbati sul mondo del pop con le urla deliranti di Avey Tare a sporcare la limpida melodia di "Reverend Green". Ci sono poi le composizioni chiaramente influenzate dalla recente, ottima esperienza solista di Panda Bear, e cioè l'eccellente "Chores" e la conclusiva "Derek", due piacevoli aggiunte allo spettro sonoro degli AC. C'è anche la voglia di riproporre una versione aggiornata e corretta del vecchio sound: "Cuckoo Cuckoo" è rumorosa e caotica ma è un caos al servizio di un ordine interno, di un autorità superiore che è appunto la coerenza del disco, il bene del tutto, che in passato veniva sacrificato spesso per lasciar briglia sciolta ai singoli brani, liberi di andare dove gli pareva.

 Un bel disco insomma, per chi non ha bisogno che i propri artisti preferiti facciano sempre le stesse cose pur di restare duri e puri. Un disco che è una tappa di un percorso sempre più aperto e difficile da prevedere. Un disco che si muove come un equilibrista su di un filo sottile per cercare di soddisfare il desiderio di evolversi senza tradirsi. Ci riesce.

Carico i commenti...  con calma