A Napoli ci sono stato, sommando il totale dei giorni, una settimana della mia vita. Prima di base a Secondigliano, poi in via Francesco Saverio Correra che sbuca su piazza Dante. Poco tempo, troppo poco, ma abbastanza per capire che Napoli è un mondo a parte, forse per questo son arrivato ad amarla; il pensiero mi prese mentre scendevo la scalinata della Pedamentina che porta dalla certosa di San Martino al centro storico, fin giù nei Quartieri Spagnoli, attraversando chilometri di bellezza diroccata, dissestata, disordinata. La mia bellezza preferita: anarchica.
Anna Maria Ortese, vagabonda d'Italia, a Napoli ci ha vissuto invece per più di vent'anni e nel 1953 pubblica "Il mare non bagna Napoli", raccolta di novelle che la fece conoscere al pubblico ma che le provocò anche uno dei tanti dolori della sua vita, l'ingiusta accusa di antinapoletanità che la costrinse ad abbandonare fisicamente la città che invece amava, mentre il pensiero lì lo lascerà sempre (scriverà anche "Il porto di Toledo" nel '75). Questo perchè su Napoli Anna Maria Ortese proietta il male di vivere, il senso di spaesamento suo e dell'Italia del dopoguerra, usa Napoli come tela per dipingere la propria angoscia e disillusione. Il ritratto della città che emerge dalle novelle non lascia scampo, si tratta di un groviglio infernale di vicoli senza luce, bassifondi cittadini e bassifondi spirituali della gente che li abita ("larve" sono più volte definiti, neanche persone), una realtà inguardabile se non attraverso una patina onirica che cela l'orrore. Ma l'orrore non sta a Napoli, sta negli occhi di chi la osserva.
Nella prima novella ("Un paio di occhiali", dal quale Carlo Damasco trarrà un corto nel 2001), Eugenia è una bambina mezza cecata che ha sempre desiderato vedere davvero il mondo, “il mondo fatto da Dio”, e per questo la zia Nunziata decide di regalarle un paio di occhiali. Eugenia è felice, indossa il suo regalo, corre oltre il portone del suo povero cortile ma all'improvviso “le gambe le tremavano, le girava la testa, e non provava più nessuna gioia". Eugenia si accascia a terra e "lamentandosi, vomitava". Allo stesso modo Anastasia Finizio, nella seconda novella, quando sa che un suo vecchio spasimante è tornato in città abbandona per un attimo la rassegnazione ad una vita in solitudine e sogna, si sogna sposata, in una casa a far colazione con lui sul terrazzo, vede la sua vita "come un viottolo che sembra morire in un campo sterrato, e invece, a un tratto, si apre in una piazza piena di gente". Poi però quando viene a sapere che Antonio è fidanzato il sogno crolla, e torna nel viottolo. Disillusione, la caduta di ogni mito. La scrittrice vede Napoli come palcoscenico ideale per il suo male addentrandosi nei luoghi oscuri che nessuno descrive mai quando parla della città, guarda l'altra faccia, attraverso le successive novelle abbandona lo stile narrativo in favore di un'indagine di stampo giornalistico - lei che prima di tutto è giornalista - e si addentra nell'inferno delle condizioni della plebe napoletana: "La città involontaria" è il momento in cui gli incubi diventano così forti da poterli toccare, l'esplorazione di un complesso residenziale raccapricciante (il III e IV Granili) è un'evocazione - voluta o no - dei danteschi gironi infernali, uno sterminato nido di larve nei cui piani più bassi non arriva la luce, le persone sono deformi e distorti sub-umani, l'odore così nausante da non essere terreno. Poi salendo le scale verso i piani più alti le condizioni di vita diventano quasi decenti, laddove un po' di luce arriva.
La seconda parte del libro infine è interamente costituita da "Il sonno della ragione", lunga novella a sua volta suddivisa in più parti, che prende di mira gli scrittori napoletani dell'epoca (Luigi Compagnone, Domenico Rea, Raffaele La Capria, Michele Prisco, Pasquale Prunas) visti come personificazioni viventi delle mostruosità e delle disillusioni affidate prima ai luoghi e/o a personaggi immaginari: chi è solo, chi è vanitoso, chi si fa portavoce di una plebe che non ha più motivo di espressione. Proprio quest'ultimo racconto, più di tutti gli altri, portò alla Ortese l'antipatia della popolazione napoletana dell'epoca, ciecamente innamorata dell'immagine gioiosa e colorata che le cartoline hanno sempre dato della città. Ma Anna Maria Ortese amava Napoli, l'amava davvero.
Io mentre camminavo lungo via Toledo, spalle a piazza del Plebiscito, poche volte mi sono addentrato nella macchia oscura che faceva ombra da sinistra, lei l'ha voluta vedere. Tutta. Il libro comunque le portò il premio Viareggio.
“Una miseria senza più forma, silenziosa come un ragno, disfaceva e rinnovava a modo suo quei miseri tessuti, invischiando sempre più gli strati minimi della plebe, che qui è regina. Straordinario era pensare come, in luogo di diminuire o arrestarsi, la popolazione cresceva, ed estendendosi, sempre più esangue, confondeva terribilmente le idee all’Amministrazione pubblica, mentre gonfiava di strano orgoglio e di più strane speranze il cuore degli ecclesiastici. Qui, il mare non bagnava Napoli. Ero sicura che nessuno lo avesse visto, e lo ricordava. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco del sesso, sotto il cielo nero del sovrannaturale” (da "La città involontaria")
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