Avant-garde.
Secondo Wikipedia: denominazione attribuita ai fenomeni artistici e letterari, più estremisti, audaci, innovativi, in anticipo sui gusti e sulle conoscenze.
Nel mio vocabolario: snobismo.
Libertà.
Secondo Wikipedia: la condizione per cui un individuo può decidere di pensare, esprimersi ed agire senza costrizioni, ricorrendo alla volontà di ideare e mettere in atto un'azione, mediante una libera scelta dei fini e degli strumenti che ritiene utili a realizzarla.
Nel mio vocabolario: quando si parla di musica è sinonimo di Trout Mask Replica.
Per l'amor del cielo; nulla contro le avanguardie. Però oggigiorno quando sento il termine avant-garde, spesso esce dalle candide labbra di qualche emerito stronzo (perdonatemi il pregiudizio). D'altronde, per rimanere confinati all'ambito musicale, come diceva Wyatt (cito a memoria): “è più facile sperimentare dai nostri salotti di gente benestante. Tanto anche se non finiamo in classifica, non rischiamo certo di rimanere sul lastrico”. Ed è precisamente questo che chiamo snobismo.
Ora, tralasciando il fatto che Wyatt sia la contraddizione vivente di ciò che afferma, è anche spesso vero che non sempre nelle così dette avanguardie si respira il senso di libertà sfrenata che ruggisce dai solchi del Capitano; che sarà stato forse più fuori di melone che vero “sperimentatore”, ma è anche uno dei pochi che mi fa venire una voglia di essere libero-senza-compromessi da perderci il sonno.
Tutto questo preambolo solo per dire che quando un disco mi viene presentato come “avant-garde” tempo un millisecondo e già mi sono segnato di starne alla larga.Purtroppo il mio primo approccio ad Annette Peacock è stato funestato da questa definizione a me così avversa: quando però ti capita sott'occhio una copertina del genere un pensierino ce lo fai.
I'm the One, sembra dire Annette mentre ci guarda con quell'aria sbruffona da questo capolavoro di ritratto psichedelico. E chi se no.
E di fatti Annette arriva a questo debutto a proprio nome già parecchio navigata e non ha di certo paura a guardare dritto negli occhi un pivellino come me. Perfetto: è questo l'atteggiamento che mi fa innamorare di una donna.
Musicista fin dalla nascita si accompagna ancora giovanissima al bassista jazz Gary Peacock che le spalanca le porte dei loft Newyorchesi in cui ci si gingilla con il free jazz. Sarà un caso ma agli inizi degli anni sessanta Annette è in tour (pianista-tastierista) con il meno gingillosso di tutti: Alber Ayler, che condivide con il mio amato Capitano la stessa follia. Nel frattempo cambia partner e si accompagna con il pianista (sempre free jazz) Paul Bley. Nei dischi di Bley suona, canta e compone. Riceve in dono da Robert Moog uno dei primi prototipi dello strumento che porta il suo stesso nome e si dice che sia stata la prima a processare la voce tramite questo sintetizzatore.
Arriviamo dunque a questo fatidico 1971 in cui ormai sicura dei propri mezzi pubblica I'm the One.
Incredibilmente ancorato al formato canzone, questo disco smonta i tradizionali blues, funk e folk per ricombinarli in un ritratto cubista che ti ridisegna nel momento stesso che lo guardi. Per fare un'idea, un trattamento simile agli standard lo sento in dischi come Nothing Can Stop Us di Wyatt o nei singoli dei Flying Lizards (la famosa cover di Money (That's What I Want) ad esempio).
Dall'iniziale ed eclettica I'm the One alla finale e più minimalista Gesture Without A Plot è il cantato di Annette a marchiare a fuoco tutte le canzoni. Riesce a essere tecnica senza perdere un briciolo di passione, sperimentale ma allo stesso tempo coinvolgente. Una specie di Joni Mitchell più esuberante, una Janis Joplin in orbita su Marte, una Nico appena un po' più accomodante, un Mick Jagger prestato al jazz: fate voi. Le sue "urla" filtrate dal Moog nel finale di I'm the One sono un qualcosa che ho sentito di rado.
Insomma: un disco con carisma, talento, tecnica e sperimentazioni che profuma di tradizione e che la reinventa. Più libertà che avant-garde questo I'm the One!
Da ascoltare!
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