Jeff Waters nasce nel 1966 in Canada, ad Ottawa, e la sua vicenda umana è legata indiscutibilmente al monicker Annihilator, marchio scelto per il gruppo che lo accompagnerà nella sua avventura solista in campo Thrash Metal, anzi il nome è solo un salvacondotto per creare l'alone di band nuova, band fra le poche che diventeranno mito e forza trainante del thrash canadese.
Jeff è il Re Solo: produce (quasi) tutti i suoi dischi, suona tutti gli strumenti a corda, canta discretamente, tiranneggia con premura i suoi dipendenti : "... proprio questa settimana cominceremo a provare per prepararci per il tour che inizierà il 30 Aprile, non vedo l'ora! In ogni caso può darsi che Curran si debba dare una calmata durante i concerti visto che le parti di chitarra degli Annihilator sono una maledetta sfida per chiunque, me compreso! Come avrai notato alcune delle nostre ritmiche assomigliano a dei veri e propri assoli..." (intervista a Jeff Waters di Kronic.it in occasione dell'uscita di "Waking The Fury" del 2002).
Dalle sue interviste apprendiamo che i musicisti sono stipendiati per suonare le sue composizioni (e posare nelle foto degli album), solo nei concerti possono dire la loro, organizzando magari lo stage, spostando la bottiglia d'acqua e lo sgabello della batteria, divenendo band a tutti gli effetti. Dopo aver pubblicato due terremotanti album di innovativo thrash (soprattutto dal punto di vista compositivo), come "Alice In Hell" e "Never Neverland" ed un terzo buono, figlio della fretta (con tre drummer diversi) , ovvero "Set The World On Fire" bistrattato ovunque e comunque (www.metalitalia.com/intervista per chiarimenti), il nostro maestro conosce un periodo di flessione negli anni '90, arrivando a farsi aiutare da Randy Black alla batteria fino all'autarchia totale con un disco di thrash elettronico (Metallus.it) nel 1996. Dopo vari problemi famigliari torna alla semi-grande nel 1999 con "Criteria For A Black Widow", assieme al cantante originario Randy Rampage e al drummer storico Ray Hartmann. La voce di Randy (con un passato nei punker D.O.A) appare migliorata, ruvida ma meno sprezzante del solito ma il singer canadese viene defenestrato nel bel mezzo del tour con gli Overkill a supporto di "Criteria For A Black Widow".
A quel punto Jeff compie la mossa più coraggiosa della sua carriera: anzichè assoldare un cantante fantoccio da manovrare a proprio piacimento, assume un'eminzenza grigia della scena metal del tempo, quel Joe Comeau ex chitarrista e voce di Overkill ed ex singer dei Liege Lord. Joe Comeau è in grado ci cantare con quattro tonalità di voce diverse, la sua originale, quella di Brian Jonhson che imita Bon Scott, quella di Rob Halford (vedi qualche stralcio della cover priestiana "Tyrant" con gli Overkill) e quella di Bruce Dickinson; inoltre è un'eccellente chitarrista, relegato però negli Overkill a suonare pochi solos (buono il wah wah di "Little Bit 'O Murder" tratto da "From The Underground And Below") e ad eseguire backing vocals sulla voce di "Blitz" (su Kronic.it c'è un'intervista a Joe Comeau molto interessante).
"Carnival Diablos" arriva con i giorni della merla del 2001 e sfrutta la scia di "Criteria For A Black Widow" essendone un proseguimento nelle sonorità thrashy torride, old style, come il fieno essicato nei campi d'estate, ad esclusione delle parti vocali senza tempo; addirittura il vecchio amico e cantante Jonh Bates, che aiutava Jeff con i testi, si fa da parte e Joe Comeau ne scrive quattro o cinque assieme al comandante, ponendo il sigillo vocale su ogni episodio del disco eccetto la strumentale "Liquid Oval" un brano di gran classe, con qualche sbandata alla "Sound Goods To Me", pregno di sonorità dolci, morbide come un cirro ad uncino, quasi simili a "Textures" dei Cynic ma nel senso della dimensione melodica, non esecutiva o creativa tanto per intenderci, dove tutto il "sapere" chitarristico di Jeff si manifesta compiutamente. La vetrina metal creata da Waters non è piena di manichini power o saldi doom di fine stagione, ma offre un singer in gran firma specialmente nel brano "Battered", sentimentale maratona speed tra le mie preferite di ogni tempo, nella quale Ray Hartmann, con uno stile preciso mai bizantino, non sbaglia un colpo aggiungendo pure delle piccole scaramucce da lasciare veramente satolli: si ascolti, ad esempio, il fragore di piatti che accompagna la chitarra melodica dopo il solos urlato e irresistibile di Jeff, oppure il trotto di doppia prima dell'immissione in ruolo dell'assolo stesso. Waters usa la chitarra come i "fucili dalle cento canne" delle Giacche Azzurre contro gli Apache, ma a sorprendere ulteriormente è Joe Comeau, grazie alla grinta, alla profondità della voce, alla pronuncia così fascinosa da stupire (vedi la dizione di "..agony"...).
L'album è un caleidoscopio di stili verniciati a polvere heavy settantiana, che sovente spiazzano l'ascoltatore, togliendo compatezza al suono, che non appare sempre devastante ma indugia in miscele hard rock, come nel caso della title track che è uno pensieroso acquarello malinconico, pennellato dalla voce mesta e dolente dell'ex Liege Lord, quasi a rivivere un vecchio ricordo, uno squarcio di dolore bruciante che non esce dalla nostra mente; la magia della chitarra varca il nostro cerchio mentale senza forzature: ci ritroviamo ad ascoltarla sempre con trasporto. Ed allora a poco serve la lettura del testo: nella nostra mente ne ricreiamo uno tutto nuovo, lo reinventiamo con le nostre stesse emozioni, un modo come un altro per ascoltare musica.
In "Shallow Grave" Comeu incarna Brian Johnson che fa il verso a Bon Scott e la canzone sembra una b-side degli AC/DC, un ottimo divertissement dei concerti come pure "The Rush", che vede Joe Comeau alle prese con Rob Halford in una solida canzone, meno attraente, che non ha una sinossi precisa, una struttura compositiva semplice da ricordare. Le atmosfere della title track del tosto "Neverland" vengono rivisitate con "Insomnia", soprattutto nella lugubre introduzione buona anche per "The Ring" versione nipponica, oppure per naufragare nel dolce mare delle serate notturne, con Waters ispirato e ragionatore. Ed arriva all'uno-due da infarto "Epic Of War" e "Hunter Killer"; in queste due ultime song sia Joe che Jeff sparano le ultime cartucce, perciò in "Epic Of War" impera un ritmo speed sottolineato dalla chitarra melodica e dalla doppia cassa persistente di Hartmann, a sottolineare l'assurdità della guerra: "...benvenuto nella guerra, nel giardino della guerra, annusa la guerra, assapora la guerra...". Joe Comeau gonfia i polmoni, scalda l'ugola per la seconda parte della canzone che decolla con le tonalità di Bruce Dickinson, viaggio con intemperia nel Maiden style che regala rossore alle guance ed orecchie calde, sovrastando il sound grezzo, forse datato, ma certamente costruito su misura per la lingua incandescente dell'ex Overkill, per il suo aggredire ogni singola strofa con convinzione, senza mai "portare" la voce come una sirenetta isterica.
Alla fine del disco Jeff Waters espone in bancarella la traccia più violenta "Hunter Killer", nella quale il riff portante diventa un rifacimento di "Bloodbath" dal precedente "Criteria For A Black Widow" o di "Reaction" da "Remains": ma ad eccellere sono la cattiveria, la velocità perfetta, il tempismo solistico efficace come una supposta di dinamite in mano a Willy il Coyote. Per due minuti Jeff ci martoria le orecchie con due o tre riff incrociati, monotoni, quasi ad aspettare il caricamento della nostra tensione, ben sapendo che aspettiamo la ripartenza, il siluro (di "Operazione Sottoveste") che avviene al minuto 2:02: conto alla rovescia terminato ed arrivano gli Slayer dei bei tempi, l'assolo a cascata di Jeff (che terrà a mente questo procedimento per il successivo "Waking The Fury"), l'agonia vocale raschiante di Joe Comeau vengono esaperate al massimo ("die submission is the rule/you cry out but your time is through"), seguite da un Ray Hartman stratosferico che rulla imperterrito e strapazza i tamburi, mentre mastro Jeff si autocelebra con un fulminante passaggio di basso, tortuoso e baritonale, sentito molte volte in questo secolo che fa calare la furia fino all' ipocondriaca distorsione della chitarra che grida per le torture inflittegli. E cala il sipario. Eppure si sentono due volte echi veloci di galline, la quiete, ed ecco il pollaio simile a quello che aveva mia nonna materna: si materializza la song ironica "Chicken And Corn", cantata da un improbabile Jeff-Filo Sganga, che viaggia spedita e chiude bonariamente il platter (www.youtube.com c'è il video divertente).
Un album ispirato e ben suonato che consegna Jeff Waters-Annihilator al nuovo millenio e che, a parte due song sottotono, rimane un album da gustare senza farsi ingannare dal minestrone sonico che odora di vecchiotto come una sgangherata sedia di paglia, poichè lo stesso Jeff ha affermato più volte di preferire una produzione altalenante, firmata da lui, che pagare un producer di grido: brucia ancora l'esperienza di "Never Neverland", continua a ripetere Jeff in ogni intervista, quasi per auto convincersi. Dopo questa uscita discografica luci ed ombre si addensano sul futuro degli Annihilator, con Joe Comeau che non ottiene lo spazio richiesto (pare) e lascia, mentre Randy Black rientra nella band. I tempi di "Alice In Hell" non torneranno più.
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