"...Udivasi un fruscio

sottile, assiduo, quasi di cipressi;

quasi d'un fiume che cercasse il mare

inesistente, in un immenso piano:

io ne seguiva il vano sussurrare,

sempre lo stesso, sempre più lontano."

(da "Ultimo sogno", Giovanni Pascoli)

Finalmente si riaffacciano sul mondo musicale gli Antimatter, autori di una musica ad altissimo tasso emotivo, malinconica, decadente, riflessiva, raffinata, autunnale, grigia, a tratti psichedelica ma pur sempre avvolta da romantiche introspezioni. Un'arte semplicemente rara ed ineffabile che sublima in musica l'opera iniziata da famosi artisti, scrittori e poeti dei secoli scorsi, da tutti coloro che nella vita non riuscivano più a scorgere un benché minimo spiraglio di luce.

A seguito della recente e funambolesca dipartita del fondatore Duncan Patterson (ex bassista degli storici Anathema), oggigiorno pienamente interessato al folklore interculturale e alla sperimentazione con il neonato progetto Ion (debuttante da pochi mesi con l'album "Madre, protégenos"), la band inglese sembra ormai essersi assestata stabilmente sulla figura di Mick Moss (voce, chitarra, tastiera, pianoforte), configurandosi come one man-band di tutto rispetto attorniata d'ospiti d'elevato spessore. Tra questi spiccano notevolmente Danny Cavanagh (chitarra acustica, pianoforte, synth), courtesy of Anathema, e la violinista Rachel Brewster, che già due anni fa fece la propria comparsa in casa Antimatter. Tra gli altri troviamo Ste Hughes (basso), Chris Philips (batteria) e Gavin Attard (synth). Viene invece a mancare il contributo delle vocals femminili, che sembrano essere state definitivamente "rubate" dal buon vecchio Duncan per il nuovo solo-project. Ad onor del vero, già nel precedente "Planetary confinement", uno tra i migliori lavori del 2005 ed assoluto masterpiece di questa creatura, si era resa nitida una propensione dell'ex-mastermind alla suddivisione dei ruoli in fase compositiva. Al disco venivano infatti riconosciute due anime ben distinte: quella inglese di Mick Moss, principalmente acustica, e quella irlandese di Patterson (vocalmente interpretata dalla brava Amelie Festa), sperimentale e suggestiva ma tuttavia carente di pathos rispetto a quella del collega. Dal momento in cui l'irlandese decise di spartire i ruoli all'interno del gruppo, la "sfida" sembrava dunque essere vinta già in partenza dal buon Moss, dotato di un'impareggiabile forza comunicativa. Ascoltare "Leaving Eden" e lasciare lentamente crescere sulla pelle i suoi rami, fino al raggiungimento di estatiche percezioni, lasciarsi invadere dalle sue spire fino a trasvolare catartiche zone extra-sensoriali, non è che una disarmante conferma del suddetto trionfo.

Abbandonate quasi totalmente le elitarie aspirazioni sperimentali dell'ex capomastro, gli Antimatter si buttano a capofitto in una materia ad essi più consona; il loro nuovo gioiello si presenta così sotto forma d'un favoloso disco rock semi acustico, in cui l'eco di una malinconia psichedelica di memoria Pinkfloydiana ("The wall") si fa sempre più intensa, così come il riverbero dello spleen esistenziale di coloro che ne sono diventati i naturali eredi (nonché il seme dal quale gli stessi Antimatter hanno preso vita): i connazionali Anathema, quelli di lavori come "A fine day to exit" e "A natural disaster". Un altro inenarrabile ma appagante viaggio introspettivo (il quarto dopo "Saviour", "Lights out" ed il sopraccitato "Planetary confinement"), dove ad accompagnarci nelle distese del più sconfinato oblio dell'anima è l'ugola di Mick Moss, dotata di un certo sentore post-grunge ed espressiva come nessun'altra al mondo, supportata costantemente dalla chitarra.

Nove inquietanti inni funebri, composizioni inesorabilmente lente, ricercate ed eterogenee si susseguono con disarmante leggiadria. Tra poetici arpeggi di chitarra ed aromatiche incursioni di violino, ci capacitiamo di quanto l'apporto della strumentazione acustica sia diventato fondamentale nell'economia compositiva, ma anche dell'accresciuto valore della componente elettrica, che contribuisce a lanciare i vari pezzi in assoli memorabili e ad infondere cariche di pura adrenalina a composizioni che altrimenti vestirebbero solamente d'autunnale intimismo sonoro. Prima di partire per questo viaggio ai confini del percettibile, sappiate che non sarà per nulla difficile perdersi in questi territori adombrati da una grigia coltre di rassegnazione, e che tale esperienza potrà armonizzare qualsiasi stato emotivo tendente alla depressione ed allo scoramento, alleviandone il vigore, grazie al dono della consapevolezza d'essere afflitti da sentimenti universali. Ogni canzone imprimerà nella mente, come un piccolo capolavoro, il proprio ricordo: se "Redemption" inebria le membra, "Ghosts" aliena la lucidità; se "Conspire" seduce col suo fascino novembrino, "The immaculate misconception" luttuosamente cosparge di foglie secche ed appassiti petali di rosa gli spogli viali del nostro cuore, e la conclusiva "Fighting for a lost cause", abbattendo anche le ultime resistenze, versa lacrime calde sulla gelida superficie marmorea della tomba appartenente alla nostra perplessità, per sempre relegata tra le cose perdute. Era difficile credervi, ma alla fine del viaggio, musica ed anima si sono fuse in un'unica abbagliante essenza.

Ricordo ancora che con l'uscita di "Planetary confinement" qualcuno li aveva definiti "la band più triste sulla faccia del pianeta"; oggi, senza timore di eccedere in entusiasmo ed evincendo l'impossibilità di un malinteso, vi dico che "Leaving Eden", assieme al suo predecessore, può tranquillamente salire sul podio dei dischi più intensi ed emozionanti degli ultimi tre anni. A prescindere dall'importante cambiamento nella line-up, gli Antimatter, reduci dalla pubblicazione di simili capolavori in pochissimi anni d'attività, sono degni d'essere ammirati e venerati per quello che rappresentano: la quintessenza dell'emotività più recondita della specie umana.

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