Oggi voglio farmi del male. Voglio esplorare i meandri più reconditi della mia anima, affacciarmi sul baratro della solitudine e non vedere altro che una luce sempre più lontana. E nessuna colonna sonora può essere migliore di questi Antimatter.
Nati da una branca degli Anathema (per chi non li conoscesse, una delle band più geniali di questo pianeta, capaci di esplorare tanto i territori del doom-gothic metal più estremo quanto quelli del rock più sperimentale di scuola Radiohead), gli Antimatter attingono a piene mani sia dai maestri del trip-hop di Bristol, Massive Attack e Portishead (i maestri del "malessere sussurrato", a metà strada tra elettronica e chill-out) sia dalle stesse radici gothic e "notturne" degli Anathema.
E questo "Lights Out", pubblicato due anni dopo l'ottimo "Saviour", è proprio un viaggio allucinato dei meandri più inaccessibili della mente umana. Non ci sono punti di riferimento stabili nei 51 minuti di questo lavoro, non ci sono certezze: i suoni sembrano giungere ovattati, delle forme non definite prodotte da un'anima che non soffre, che non grida il suo dolore al mondo, ma che semplicemente si rassegna di fronte alla sconcertante crudeltà delle cose. "Everything you know is wrong", tutto ciò che sai è sbagliato, recita una delle tracce più riuscite di questo lavoro.
L'album si apre con il lancinante suono di una sirena da guerra che introduce la splendida title-track. Ma la presagita furia non giunge a compimento: si scoglie invece in vaghe atmosfere elettroniche, sulle quali regna una flebile voce femminile che recita la sua solitudine. "Lights out as you hit the ground", luci spente mentre arrivi a terra...
La successiva "Stone" è una delicata ballata elettronica, inframmezzata da una parte più ruvida in puro stile Anathema, e poi chiusa da una voce recitata in "stile notiziario" (qualcuno ha detto Dream Theater?) e dalle sue riflessioni sulla natura umana.
E ora le autentiche 3 perle del lavoro. "Dream" è probabilmente una delle melodie più struggenti mai concepite dalla mente umana; probabilmente il passaggio più easy-listening dell'intero album, ma cesellato da tocchi avanguardistici che lo rendono unico, una voce femminile che segue una linea melodica che si imprime nella mente dell'ascoltatore fin dal primo ascolto, mentre le tastiere prima e i violini poi arabescano un tessuto di note unico. È notevole anche il lavoro delle percussioni in questo brano, specie nel finale dove ad accompagnare i violini la fanno da padrone le ritmiche ossessive di un rullante in delay e dei tom, un connubio originalissimo che chiude in modo stupendo una delle vette più alte dell'album.
È il turno ora della stupenda "Everything You Know Is Wrong", dove una voce maschile esprime il suo assoluto disincanto. "Mi dispiace confonderti, ma tutto ciò che sai è sbagliato". E sembra di far rivivere Cartesio, con il suo dubbio assoluto, con la sua visione della realtà come un inganno. Oppure lo Schopenhauer più esistenzialista, quello della realtà vista come illusione... un'illusione che può essere sconfitta solo alzando quel misterioso "velo di Maya", che nasconde ai nostri occhi la realtà più crudele. Il pezzo è chiuso da un meraviglioso assolo di tastiere, sostenuto appena dalle profonde ritmiche del basso di Duncan Patterson.
Nella successiva "The Art Of A Soft Landing" fa nuovamente capolino l'emozionante voce di Mick Moss, che cesella un raffinatissimo lavoro elettronico, dove solo nel finale fa la sua comparsa una chitarra distorta e un urlo straziante che risuona in lontananza: è quasi il momento della catarsi dell'album, pochi secondi in cui il malessere interiore prende una forma quasi tangibile, per poi ritornare improvvisamente nei recessi dell'Io più profondo, accompagnato solo dalle desolanti note delle tastiere.
"Reality Crash" è un'altra bellissima ballata, dominata da un basso protagonista assoluto e da un intreccio strumentale unico, dove fa la sua comparsa, sia all'inizio sia alla fine, la delicata melodia di un flauto traverso.
"Expire" è una traccia che non avrebbe sfigurato su "100th Window" o su "Mezzanine" dei Massive Attack: 8 minuti di puro trip-hop. La voce femminile non è più delicata e ovattata come nei brani precedenti, ma si fa inquieta, turbata, mentre ripete, quasi come un mantra, "I've a solution. Final solution", e le basi elettroniche diventano fredde, artificiali, lontane anni luce dalle avvolgenti linee melodiche che emergono dalle altre canzoni.
Quasi a fare da camera di decompressione per il precedente brano, e per l'intero album, giunge la finale "Terminal", un brano esclusivamente strumentale aperto in modo delicato dagli arpeggi di una chitarra acustica prima e di un'arpa poi. Le tinte poi si fanno fosche nella seconda parte, dove il suono dei sintetizzatori si fa più profondo e cominciano a sentirsi dei rumori di sottofondo. L'album è quindi chiuso da un ticchettio elettronico continuo, quasi il freddo suono di una macchina che monitorizza i battiti del cuore di un paziente in fin di vita. È questo suono a chiudere l'album, quasi a simboleggiare la morte di ogni speranza, mentre tutte le luci si spengono.
In definitiva, questo "Lights Out" non è un album per tutti. È un album esistenzialista e "notturno". È un album da ascoltare a luci spente, e anche ad occhi chiusi, per lasciarsi trasportare in un viaggio nella propria mente, dove le grandi domande e le grandi paure regnano ancora solitarie. È un album che fa male, specie se ascoltato tante volte, che ti penetra nelle viscere fin dal primo ascolto come solo i grandi capolavori sanno fare. Ed è un capolavoro ingiustamente relegato in una nicchia del vasto panorama musicale, un capolavoro quasi passato in sordina, e che meriterebbe un ascolto attento da parte di tutti.
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