Lo so che è difficile, forse impossibile. Però mi piacerebbe poter pensare e scrivere del Venditti anni 70 come un cantante e basta. Si va bene la politica, le ideologie, il ’68, la rivoluzione e le barricate… ma cosa ci resta musicalmente del cantante o meglio, del cantautore. E cosa ci resta di quel periodo e di quei dischi? Perché non tutto si è perso come la giovane Lilly ed i suoi maledetti buchi nella pelle.

Allora Venditti ancora non poteva sapere che il suo disco sarebbe stato un evergreen della musica italiana di sempre. Eppure le premesse c’erano tutte. L’ispirazione, la forza della gioventù e sulla punta delle dita, che dire, “poco jazz e le ombre della vita…” . Quello serviva a comporre grandi canzoni. Antonello era un tipo motivatissimo e convinto più di altri di potercela fare. Il tempo di lì a breve gli darà ragione. Non aveva la poetica delicata e visionaria dell’amico Francesco De Gregori ma uno spiccato senso per la melodia e la forma canzone, quello si. La sua convinzione stava ben radicata nell’idea che anche in Italia si potesse fare musica rock o magari solo pop, sul modello di quello che Elton John era riuscito a fare in Inghilterra e Billy Joel e Randy Newman di lì a poco avrebbroe fatto in America. Pianoforte, melodia e perché no, qualche testo che non fosse così banale come quelli che l’Italia ereditava da decenni di canzonette e di ruffianate alla Mogol. Lilly in questo senso è il disco che meglio si sposa con tutto questo.

L’apertura dell’album è una ballata mozzafiato, vincente nelle armonie e nel crescendo. “Lilly”, la canzone che da il titolo al disco, trova il suo respiro senza bisogno di tante parole, semplicemente con un giro ossessivo di pianoforte che va progressivamente a rinforzare. Ipnotica e struggente a rincorrere quel nome all’infinito. E’ anche una fotografia di quegli anni, una tragica storia di droga che in molti, vissero ai tempi come fosse la loro. Sarà un successo senza precedenti. Singolo, numero uno in Italia alla faccia dei Bee Gees, trainerà l’album in vetta alle classifiche.

“L’amore non ha padroni” è un’altra grande canzone, forse meno immediata di Lilly ma sicuramente altrettanto efficace. Dicono si riferisca alla sua storia di amore con la compagna di allora, quella Simona Izzo che diventerà altrettanto celebre al cinema ed in tv. A noi interessa ancora una volta l’aspetto musicale della canzone, intensa e brillante, mai banale.

L’intermezzo romanesco che segue, intitolato “Santa Brigida”, mi ha sempre lasciato perplesso, nell’interpretazione sopra le righe così come negli arrangiamenti orchestrali che a mio parere stonano con la sobrietà del disco. A qualcuno invece piacque molto in tutta la sua cialtrona romanità… io lascio agli ascoltatori il verdetto.

La facciata A si chiude con “Attila e la stella”, ballatona acustica e siamo di nuovo sugli scudi con un pezzo che forse non ha la statura del classico ma conserva fascino da vendere. Recentemente Venditti e De Gregori l’hanno ripresa sul palco insieme e la canzone ha tenuto lo schiaffo del tempo a quasi mezzo secolo dall’uscita.

Lato B del vinile, “Compagno di scuola” è un classico tra i classici. Ha influenzato tonnellate di cantautori a venire e in tempi recenti è diventata pure ispirazione diretta di un film con tanto di sequel. Oggi emoziona ancora, al netto dei luoghi comuni inevitabili, nelle armonie e nelle orchestrazioni delicate. E poi sopratutto nelle parole, un pò “scolastiche” ma vissute da tutti noi esattamente come da Antonello ai tempi del Liceo.

“Lo stambecco ferito” alza il tiro ed ammicca all’Elton John prima maniera, più vicino al progressive che al pop. Una “Madman across the water” de casa nostra se vogliamo, densa nei testi e nell’espressività dell’autore, pianisticamente forte e commovente, specialmente nella meravigliosa coda finale.

Il disco si chiude con “Penna a sfera” dove Venditti mette alla prova la sua vena pop che negli anni a venire diventerà la sua carta vincente. Il testo birichino e provocatorio mette alla berlina un giornalista di allora che lo aveva sbeffeggiato e la canzone funzione alla grande nel suo incedere uptempo, quasi un divertissement ad alleggerire l’atmosfera prevalentemente plumbea del disco.

Lilly segna in definitiva l’alba di una grande stagione musicale, pensiamo a “Rimmel” e di lì a poco “Via Paolo Fabbri”, “La torre di babele”, “La fiera dell’est” etc.. Una stagione unica e irripetibile, consapevole e matura anche se sicuramente non ancora libera da posizioni e schieramenti che in parte ne limitarono, a mio parere, il valore puramente artistico. Al netto dei retaggi e di una contestualizzazione gravida di contenuti discussi e discutibili, ne scaturì una proposta musicale innovativa. Consapevolmente indirizzata ai modelli anglosassoni, in realtà da questi prese apertamente le distanze per creare una storia tutta sua, una storia italiana. E Antonello ci riuscì ed ebbe grande parte in tutto questo, così come l’amico De Gregori e pochi altri. Nel 1975 i ragazzi del Folkstudio camminarono finalmente da soli e misero finalmente a fuoco il loro grande talento che diventò esplicito, originale ed ampiamente condiviso e riconosciuto dalla loro generazione.

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