Un vero spettacolo teatrale è fatto per essere goduto dal vivo.
Sembra banale a pensarci, eppure è proprio da questo semplice assunto, da questo motto degno di monsieur Lapalisse che è nato uno dei libri più importanti del '900.
Quando Artaud mise a punto "Il Teatro e il suo Doppio" quasi tutti i palcoscenici Occidentali grufolavano pigramente nelle certezze di assiomi ritenuti inattaccabili, nella comfort zone di procedure trite e ritrite, nelle immondizie di un'inerzia acritica e fiacca.
Certo, c'erano state le intuizioni di Alfred Jarry, i nuovi orizzonti tracciati da Strindberg, le trovate metateatrali di Pirandello e gli scossoni delle avanguardie - Dadaismo prima e Surrealismo poi - ma tutte queste scintille non avevano infiammato il cuore dei mestieranti ed erano rimaste lettera morta nella stragrande maggioranza dei casi.
Ancora negli anni Trenta, il teatro in Occidente era semplicemente il tentativo di una compagnia (regista e attori) di trasporre il più fedelmente possibile un testo scritto da altri (drammaturgo).
Essenzialmente lo sforzo profuso da schiavi che cercavano di servire il loro padrone, uno sforzo che aveva nella comunicazione verbale (dialoghi e monologhi) il giogo più vincolante. Luci, musiche, scenografia, spazio scenico, costumi, persino i gesti degli attori erano tutti elementi utilizzati come didascalie nella migliore delle ipotesi e come meri orpelli nella peggiore.
Artaud non fu il primo che cercò di scardinare questi dogmi, ma fu il solo a modellare con precisione gli elementi della sua critica inserendoli organicamente in un discorso che toccava tutti gli aspetti dell'Arte di fare Teatro.
Stanco del superficiale psicologismo e della vacua mimesi della realtà quotidiana che incatenavano le scene a sterili quadri bidimensionali, Artaud ha cercato di rinnovare radicalmente la giustificazione stessa del teatro, di rivoltare come un calzino le intenzioni, gli obiettivi e l'etica del mestiere.
Quando si parla di lui, però, è impossibile ridurre il tutto a una questione deontologica.
Artaud voleva ricollegare il teatro contemporaneo agli elementi primordiali che ne avevano decretato la nascita millenni prima. Il teatro doveva ritornare ad essere un crogiolo ribollente dove ciò che veniva fuso e mescolato non erano gli interessi, le passioni, gli amori degli uomini, ma piuttosto le folate e le scosse di Energie ancestrali di cui gli attori in scena, con le loro collisioni e contaminazioni, ne dovevano rappresentare l'incalzante anarchia.
Veri e propri rituali pagani che dovevano far rientare il Divino e il Mistero nella vita di tutti i giorni. Proprio questo è il "Doppio" a cui si riferisce Artaud: una tentazione metafisica a cui, per essere degno di questo nome, il Teatro doveva cedere e abbandonarsi con tutte le sue forze.
Proprio per questo, per valorizzarne l'aspetto rituale, bisognava liberare il teatro da ogni intermediario che poteva inibirlo. Doveva finire la dittatura del testo, doveva essere assassinata la figura opprimente del drammaturgo e ogni rappresentanzione doveva essere concepita direttamente sulla scena grazie al lavoro comune di registi e attori.
Artaud parla di Teatro della Crudeltà dove il termine "crudeltà" non faceva riferimento a una prassi sanguinaria o violenta nel senso fisico. Questa parola era piuttosto usata in un'accezione filosofica e indicava una volontà indomabile, ferrea, intransigente che gli attori/registi-officianti dovevano imporre prima di tutto a sé stessi per creare una rappresentazione-cerimonia.
Sul calco del rigore assoluto degli spettacoli Orientali - in particolar modo di quelli del teatro Balinese - la cura per ogni più piccolo dettaglio doveva essere maniacale, calibrata al millimetro e la parola articolata doveva essere depurata dagli aspetti quotidiani e ridotta a uno degli elementi, e nemmeno il più importante, del linguaggio complessivo della scena.
Luci, musiche, costumi e tutto quello che di accessorio era considerato in precedenza acquistavano con Artaud una dimensione nuova. Trasfigurati ed elevati alla dignità di veri e propri personaggi disincarnati tutte queste componenti rivaleggiavano per importanza con i movimenti, il corpo e la voce degli attori contribuendo alla densità della scena che doveva colpire la percezione sensioriale degli spettatori su più livelli.
Questa rivoluzione non si proponeva di fare prigionieri e nemmeno lo spazio fisico entro cui la rappresentazione avrebbe vissuto sarebbe stato risparmiato. Eliminando il classico distanziamento palcoscenico-platea Artaud voleva che gli spettatori fossero collocati al centro della sala con lo spettacolo che li avrebbe circondati turbinando in ogni dove e travolgendoli come un vortice orgiastico, obliquo e sempre in divenire.
Il teatro doveva ridiventare un qualcosa da vedere per poterne cogliere l'essenza, una condivisione di tempo e di spazio che non ammetteva nessuna diluizione testuale.
Artaud era perfettamente consapevole della portata radicale del suo messaggio ed è per questo che, non volendo rischiare un totale rifiuto da parte di pubblico e critica, decise di rappresentare "I Cenci" come lavoro di presentazione dei suoi postulati. Un dramma di transizione dove su un impianto classico erano incastonate solo alcune delle caretteristiche del nuovo Teatro della Crudeltà.
Fu un insucesso clamoroso, cocente, totalmente non previsto e qualcosa si ruppe nel cuore e nella mente del Nostro. È da questo punto in poi che per Artaud ha inizio una nuova fase della sua vita: una storia fatta di schizofrenia, internamenti ed elettroshock. Il mago e il profeta si era richiuso definitivamente in sé stesso.
Non so se sia vero che il tempo è galantuomo, ma una cosa è certa: "Il Teatro e il suo Doppio" è ancora oggi l'insostituibile stella polare per chiunque si cimenti o si interessi alle avanguardie (di qualunque campo esse siano), linea di confine tra Arte e Rito che spinge all'estremo limite le possibilità offerte dal Teatro.
Molti registi nel corso degli anni si dichiareranno discepoli di Artaud, ma quanti lo sono stati davvero? Pochi, pochissimi e, tra questi "orribili lavoratori" (per dirla con Rimbaud), vale la pena di ricordare Jerzy Grotowski che arrivò al paradosso di non considerare più necessaria la rappresentazione di fronte ad un pubblico celando nelle segrete stanze di laboratori permanenti i frutti delle sue conquiste.
Ma questa è un'altra storia.
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