Alla fine dell'Ottocento era già in funzione ciò che attualmente viene definito lo "star system" americano. All'epoca però il suo scopo non era quello di creare dal nulla divi di plastica (anche per mancanza di materia prima, non ancora inventata) per poi sopprimerli rapidamente e sostituirli con altri perfettamente uguali ma "nuovi". Come ci dice De Gregori in "Bufalo Bill", il paese era molto giovane e quindi avido di musica, sebbene privo di una propria scuola di compositori: Ives si sarebbe messo in luce di lì a qualche anno, Gershwin e Copland dovevano ancora nascere. La potenza del Dio Dollaro quindi fu sfruttata da alcuni mecenati illuminati per portare negli USA quanto di meglio poteva offrire il Vecchio Continente, e tra i compositori più illustri di questa fase tardo-romantica ormai il ceco Antonìn Dvorák aveva assunto un posto di rilievo.

Difficilmente incasellabile secondo il rigido dualismo di quel secolo ("progressisti" alla Wagner contro "conservatori" alla Brahms), fu più che altro un sublime interprete dello spirito musicale popolare della sua Boemia, che per quanto piccola, come gran parte dei paesi slavi costituiva un inesauribile serbatoio di melodie, spesso malinconiche ma affascinanti. Nato in un anonimo villaggio non distante da Praga, Dvorák aveva già pronto davanti a sé un solido futuro da macellaio, il mestiere del padre, e a scanso di equivoci prese l'attestato per esercitare questa professione, anche se di lì a poco le sue innate doti musicali avrebbero cambiato il corso della sua vita, sia pure attraverso un periodo di dura gavetta. Questo per dare un'idea del personaggio, che da buon contadino rimase legato agli aspetti più pratici dell'esistenza anche quando ormai era acclamato come uno dei maggiori compositori europei. Non deve stupire quindi l'entusiasmo con cui nel 1892 accettò l'offerta di dirigere il National Conservatory of Music di New York: da un lato c'era la prospettiva di lasciare le sue radici boeme, fonte essenziale della sua ispirazione, ma dall'altro c'era un ricco assegno che garantiva una retribuzione pari più o meno a 30 volte quello che avrebbe percepito in patria. Per di più nel suo caso il trapianto negli USA non comportò neanche il disseccamento della vena creativa, ma anzi ebbe l'effetto opposto, sia grazie all'accoglienza trionfale, che ad ogni concerto non finiva mai di stupire quest'uomo semplice e concreto, sia grazie al fatto di trovarsi, anche oltre Oceano, sempre ben circondato da suoi connazionali, specialmente durante il soggiorno nel villaggio di Spillville (Iowa), una vera e propria isola boema in mezzo alla straripante natura di un'America ancora in gran parte selvaggia.

"Gli americani si aspettano grandi cose da me, e la principale è di additar loro la terra promessa; in breve, di creare una musica nazionale" è una sua ambiziosa affermazione di quegli anni, e vista la sua umiltà di fondo può dare un'idea dello stato di esaltazione in cui questa avventura americana lo aveva posto. Un'esaltazione per nostra fortuna assai feconda: il sentimento di riconoscenza verso il grande paese che lo aveva adottato così calorosamente trovò espressione in varie opere, tra cui primeggia la Sinfonia n° 9 in mi minore Op. 95, nota come Sinfonia "Dal Nuovo Mondo", il suo più celebre capolavoro sinfonico, ma non l'unico (anche la Settima e soprattutto l'Ottava si possono tranquillamente considerare tali). Sembra che il sottotitolo sia stato aggiunto all'ultimo momento da Dvoràk, ignaro degli equivoci che avrebbe generato: molti avrebbero infatti inteso il "dal" con un "del", e nonostante le successive precisazioni dell'autore sarebbero partiti come cani da caccia alla ricerca di presunte fonti folcloristiche americane, mettendo in mezzo perfino gli Indiani, oltre agli spirituals neri. Ora si sa che il curioso Dvoràk si appassionò alle musiche popolari indigene e ai canti afroamericani, anzi vale la pena di citare questa sua affermazione quasi profetica: "Nei canti dei neri d'America si ritrovano tutti gli elementi necessari a dar vita a una grande e nobile scuola musicale (. . . ) Sono convinto che il futuro musicale di questo grande paese affondi le sue radici nella cultura nera. " Non male, detto circa una decina d'anni prima dell'apparizione delle prime orchestrine jazz. Ma lo stesso Dvoràk è altrettanto chiaro nel ribadire che le sue opere "siano esse scritte in America, Inghilterra o altrove, sono semplicemente un'espressione genuina di musica boema". Più chiaro di così. . . Caso mai più che una fonte musicale americana è stato trovato il nesso con una fonte letteraria, il poema "The Song of Hiawatha" di Longfellow, al quale sembra siano ispirati il secondo e il terzo movimento.

Comunque sia, ciò che ogni semplice ascoltatore può cogliere è la straordinaria bellezza di questa Sinfonia, che deriva da un'eccezionale capacità evocativa e descrittiva. Già dal primo movimento, "Adagio - Allegro molto", si coglie una visione a largo raggio delle grandi distese americane: dopo una breve introduzione lenta, un brusco sussulto di archi ribadito dai timpani introduce il primo tema, esposto dal corno, che sembra emergere direttamente dal verde cupo dei boschi più fitti, e a sua volta spiana la strada al secondo, più placido, un motivo capace da solo di catapultarci in un mondo più più sognato che reale, quello che abbiamo conosciuto attraverso i film western. Il contrasto si fa sempre più vivo ed energico, fino alla coda perentoria e maestosa.

Il "Largo" è una delle più ispirate melodie del tardo romanticismo, anzi in realtà si basa su due motivi. Il primo, tra il pastorale e l'elegiaco, viene esposto dall'inconsueta voce del corno inglese, aspra e nasale come quella dell'oboe ma più profonda; il secondo è costituito da una serie di fremiti orchestrali, come sospiri di un pianto dolcissimo ma inconsolabile, a tratti quasi schubertiano. Lenta ma inesorabile la tensione cresce, interrotta solo da una vivace citazione dei temi del primo tempo.

Liberatorio, brioso come una delle "Danze slave" dello stesso Dvoràk, irrompe in un trionfo di triangoli e timpani il terzo movimento, "Molto vivace", così festoso da riuscire a incorporare il tema elegiaco precedente riproposto in forma totalmente diversa, praticamente poco meno che ballabile.

E così pieni di gioia arriviamo al gran finale, "Allegro con fuoco", dominato quasi tirannicamente dal celebre tema, quasi elementare ma di grande forza espressiva, all'inizio letteralmente sparato all'unisono dagli ottoni, poi rimaneggiato in fantasiosi intrecci con citazioni dei movimenti precedenti, infine dilatato a dovere, al fine di preparara una chiusura quanto mai maestosa, come merita questa superba Sinfonia, straordinariamente ricca di motivi facilmente cantabili, comprensibili anche ai non classicomani. Dicendo che l'intrepretazione dei Berliner Philharmoniker diretti da Herbert Von Karajan è assolutamente perfetta praticamente non faccio altro che scoprire l'acqua calda, ma d'altra parte è quella che conosco, e ne sono ben lieto.

Carico i commenti...  con calma