Ventisette mesi di monologo in una notte fumosa di Lisbona, “Vede, mia cara”, un vomito alcolico di coscienza, di albe untuose, gelate, acri, colme di amarezza e di rancore. È una clessidra di terra rossa dai tempi serrati e indistinguibili, un flip book di parole, dove le immagini sinestesiche si susseguono a cadenza vertiginosa, a formare un moderno trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio popolato d'inquietudine.

Sullo sfondo, la guerra coloniale portoghese in Angola, un intreccio caldo e vischioso di orrore e paludismo, di soldati senz’anima, di una sessualità disperata e animale, di un recondito bisogno di tenerezza. A tirare i fili, comodamente, da lontano, i signori di Lisbona, la città senza mistero di Salazar e dell’ipocrisia opulenta e cattolica dell’Estado Novo, mascherato con false pompe di cartapesta.

Protagonista è l’umanità: un’umanità disumana, in cui l’uomo mangia l’uomo, sbrindellata da ventisette mesi di guerra insensata nelle budella, stuprata dalla Pide, tenuta in piedi da violenza e morfina, affamata di morte. Terrorizzata dalla morte. Un’umanità fragile e malinconica, spaventata come una bestia in gabbia, disorientata nell’immensità paludosa dell’Africa o nell’acquario di piastrelle di una stanza di Lisbona. Un’umanità infelice, disincantata e cinica, che non ambisce neanche a una felicità che non è altro che quella condizione che viene fuori dall’impossibile convergenza di parallele fra una digestione senza acidità e l’egoismo soddisfatto e privo di rimorsi.

Un’umanità particolare che diventa universale.

Duecento pagine celiniane e autobiografiche, duecento punti di sutura rimessi insieme alla buona e col filo grosso. Duecento ferite che, superato l’impatto inatteso dell’inizio, vi lasceranno ipnotizzati e attoniti, inorriditi e confortati, vulnerabili e umani.

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