“Nella sterminata pubblicistica dedicata al gruppo, permane una sostanziale sproporzione fra l’agiografia e l’analisi, e ancora oggi si attribuisce alle liriche, componente essenziale della loro opera, un ruolo secondario”.
Antonio Taormina, una delle massime autorità italiane sui Beatles, comincia così l’introduzione del suo libro, un’eccellente opera di consultazione, dove il testo di ogni canzone dei Beatles viene riportata nella versione originale inglese, e tradotta rigo per rigo, preceduta da una breve, e talvolta molto sostanziosa, introduzione storico-esegetica.
Il miglioramento continuo della musica dei quattro procedette parallelamente con il miglioramento delle loro liriche, anche se, nel loro caso, non si può parlare di poesia messa in musica come nel caso di Bob Dylan e Leonard Cohen.
Lennon e McCartney iniziarono con testi fondati su cliché adolescenziali, talvolta originali (“This Boy”), molto più spesso banali (“She Loves You”, “Please, Please Me”), con liriche ripulite da ogni allusione sessuale alla Elvis, perché nei giorni della Beatlemania, i Beatles, secondo gli ordini di Brian Epstein, dovevano piacere a figli e genitori, e non si potevano permettere di andare sopra le righe.
L’incontro con Bob Dylan, all’inizio del 1964, fu essenziale per la loro crescita come scrittori di testi, specie per Lennon. Quando John disse a Dylan: “Io non ascolto le parole delle canzoni, ma solo il suono in generale”, la risposta del grande menestrello: “Ascolta le parole, amico”, divenne quasi un comandamento per John, che cambiò il suo atteggiamento verso le canzoni, trasformandole in uno strumento per esprimere i suoi pensieri. In ogni caso, già nel 1963, in un paio di pezzi, Lennon aveva già mostrato qualche tentativo (inconsapevole) come autore: “There’s a Place” (un gioiellino di poetica introspezione) e “Misery” (con versi tendenti al vittimismo).
Dopo “I’ll Cry Instead” (ottima messa a nudo della sua fragilità), il suo primo tentativo (davvero consapevole) di dire qualcosa, ebbe luogo su un aereo, nell’estate del 64, quando scrisse “I’m a Looser”, canzone in cui, dietro una storiella adolescenziale, ammise l’insicurezza che si nascondeva dietro la facciata.
La sua autoanalisi proseguì con la confessione della sua timidezza (“You’ve Got Hide Your Love Away”) e con l’ammissione della sua perdita di punti di riferimento (“Help!”), per poi passare, qualche mese dopo, a “Nowhere Man” (geniale affresco della sua anima spezzata in due dai suoi sensi di colpa).Ma in “Rubber Soul”, Lennon diede prova del suo talento anche nella splendida figura femminile descritta in “Girl” (profezia di Yoko Ono), e in “In My Life” (celebrazione “in crescendo” dell’amore in tutte le sue forme: amore per il passato, amore per gli amici, amore per la persona amata, amore come tutto). McCartney, all’inizio, stette a guardare, non credendo che i testi delle canzoni fossero letteratura. Tuttavia, il primo vero pezzo dei Beatles con liriche di spessore poetico, dopo l’incontro con Dylan, fu il suo gioiello dimenticato “Things We Said Today”, in cui espresse molto bene, in forma dialogica, il suo desiderio di un amore fedele.
Alla fine del 1964, in “I’ll Follow The Sun” (a onor del vero scritta quando era ancora adolescente), Paul lasciò un altro verso magnifico: “Tomorrow may rain, so I’ll follow the sun” – ad indicare un lui che lascia una lei dal carattere instabile.
Dopo l’eccellente “Yesterday” (espressione del suo desiderio di un amore vero e non di un amore usa e getta (“an easy game to play”)) e l’invito a non mollare quando tutto sembra andare storto contenuto in “We Can Work It Out”, McCartney raggiunse la piena maturità in “Revolver”, nonostante cadute imbarazzanti (“Good Day Sunshine”) e sdolcinate (“Here, There and Everywhere”).
In “Revolver” lasciò ai posteri un capolavoro musicale (“Eleonor Rigby”) che annovera un testo davvero notevole che (nella sua semplicità) non ha nulla da invidiare alla musica che le fa da sottofondo. In questo pezzo racconta la solitudine di un prete e di una donna anziana, e il funerale della donna officiato dallo stesso prete a cui non prese parte nessuno.
Ma non si fermò qui, disegnando il triste quadro di un amore che finisce per l’egoismo di lei (“For No One”), mentre, nello stesso disco, Lennon lasciò la sua saggia celebrazione della pigrizia (“I’m Only Sleeping”) e un pezzo sull’annullamento dell’ego (“Tomorrow Never Knows”), aiutando George nel suo velenoso e ironico attacco al governo inglese che tassava al 95% i redditi più alti (“Taxman”).
“Pepper”, benché non il massimo capolavoro musicale dei Beatles, rappresenta probabilmente il vertice di Lennon/McCartney come autori – complice una collaborazione tra i due che, purtroppo, non si sarebbe più ripetuta. Quasi tutti i brani meritano di essere menzionati per i testi: “Strawberry Fields” (genialoide e folle autoanalisi della lacerazione interiore di John); “Penny Lane” (quadro di tre immagini dell’infanzia di Paul descritte in tre strofe, e poi raccolte insieme nella quarta strofa); “The Fool on the Hill” (dove si parla del saggio che talvolta è condannato ad essere solo); “When I’m 64” (il pensiero della vecchiaia trattata da un uomo che parla alla sua donna); “Good Morning, Good Morning” (con Lennon che descrive in terza persona, e in modo brutale, la sua vita solitaria, annoiata e priva di amore); “Lucy in the Sky with Diamonds” (versione lennoniana di “Alice in Wonderland”); “Getting Better” e “Fixing a Hole” (con l’autore “John/Paul” che racconta i suoi tentativi di cambiare vita per cercare di essere felice); “She’s Leaving Home” (dramma familiare messo in versi); e soprattutto “A Day in the Life” (monumentale “pastiche” assurdamente logico e unitario). In “Pepper”, John e Paul cominciarono ad andare sopra le righe, con inviti all’uso della droga, e l’uso di doppi sensi (“Fixing a hole” (in slang: bucarsi), “Blew his mind” (sballare), ”Take some tea” (in slang: facciamoci una canna)) – anche se, effettivamente, John aveva già utilizzato, un anno prima, un doppio senso nel titolo “Day Tripper”.
Dopo la pubblicazione del capolavoro del 67, cominciarono a nascere gli “esegeti creativi” che iniziarono a pontificare sui significati nascosti dei testi dei Beatles. Per prenderli in giro, Lennon decise di abbandonarsi al nonsense (ispirato dal suo idolo Lewis Carroll) e lo fece in uno dei suoi massimi risultati: “I’m the Walrus”. L’artificio gli piacque così tanto che sprecò in questo modo altri gioielli musicali come “Cry Baby Cry”, “Happiness is a Warm Gun”, “Dig a Pony” e “Come Together”.
Tuttavia, nel “Doppio Bianco” continuò ancora a scrivere in modo convenzionale, come in “Yer Blues” (agghiacciante confessione della lotta contro i suoi demoni), “I’m So Tired” (seconda parte di “I’m Only Sleeping”, ma molto meno ispirata), “Julia” (poetica e delicata dedica alla madre) e “Revolution” (un bel colpo assestato ai maosti, che ebbe reazioni furiose da parte della sinistra radicale di tutto il mondo, e che portò John a ritrattare e a diventare un maoista da lì a qualche anno). Nel frattempo, George Harrison, dopo aver mostrato la sua intelligenza in “Revolver” con “I Want To Tell You” (descrizione dell’incapacità di esprimere chiaramente a parole quello che è chiaro nei nostri pensieri) in “Within You, Without You” ( contenuto in “Pepper”), scrisse uno straordinario testo sulle persone che, messo da parte l’amore, conquistano il mondo e perdono l’anima, affrontando la verità quando è ormai troppo tardi. Juan Muscaro, professore di sanscrito a Cambridge, fu così toccato da questi versi che inviò a George una lettera di apprezzamento, suggerendogli di musicare alcune pagine del Tao – cosa che Harrison fece nel gioiellino “The Inner Light”, pubblicato assurdamente come B-side nel 1968, e che avrebbe alzato non di poco il livello del “Bianco”. Nel disco del 68, Harrison parlò ancora dell’amore raffreddato nel suo capolavoro musicale, “While My Guitar Gently Weeps”, dove lanciò, in modo molto ermetico, un’ amara frecciatina ai suoi due amici, John e Paul, che, a causa della formazione della “Apple Records”, si erano trasformati da musicisti in uomini d’affari. In “Long, Long, Long”, George rivolse addirittura una semplice ma amorosa preghiera a Dio.
Invece, gli unici testi davvero importanti che Paul scrisse nel periodo “White” furono “Blackbird”, e la commovente “Hey Jude”. Tuttavia, il pensiero e il dolore per il possibile scioglimento dei Beatles, con Lennon ormai tossicodipendente perso dietro a Yoko Ono, lo ispirò per alcune delle sue migliori liriche in assoluto: “Get Back” (richiesta a John di tornare in sé e di lasciare perdere Yoko Ono); “2 of Us” (dolente atto di consapevolezza dell’imminente fine dei Beatles con un verso splendido: “Tu e io abbiamo ricordi più lunghi della strada che abbiamo davanti”); “The Long and Winding Road” (espressione della rassegnazione per la fine di un amore, che, col senno di poi, può essere letta come la fine della storia artistica tra lui e John); “Let It Be” (espressione della saggezza di chi ha smesso combattere contro il destino e ha capito che è meglio lasciare che le cose vadano come devono andare); e infine “Carry that Weight” (profetica e amara profezia del suo futuro come ex-Beatle, contenuta in “Abbey Road”). Dopo una semplice quanto profonda e “nuda” dichiarazione d’amore a Yoko Ono, contenuta in “Don’t Let Me Down” (pubblicato solo come singolo), Lennon, in “Abbey Road” lascerà uno dei suoi versi migliori in assoluto, se vogliamo una sintesi di “In My Life”: “L’amore è tutto, l’amore sei tu” (contenuto in “Because”), a cui Paul rispose da par suo, in “The End”, con il verso più bello e profondo della discografia dei Beatles (un verso “cosmico” secondo la definizione di Lennon): “Alla fine l’amore che si riceve è uguale all’amore che si da”.
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