Anno Demoni 1974: Antonio Bartoccetti ci riprova. Dopo il flop commerciale dei lavori usciti sotto la sigla Jacula, il dark-progressive della premiata ditta Bartoccetti/Norton trova una nuova temibile incarnazione: Antonius Rex è il nuovo volto che rilancia l'arte di Magus Antonio, coadiuvato e sponsorizzato da sir Albert Goodman, signorotto delle lande inglesi appassionato di occulto e titolare dell'etichetta indipendente Darkness, per la quale originariamente esce questo "Neque Semper Arcum Tendit Rex".
Decisamente oscuro ed inquietante (terrificante, se si pensa al panorama musicale dell'epoca), "Neque Semper Arcum..." è un album magnetico, maledetto, avvolto dal mistero e attorno al quale ruotano vicende poco chiare. Albert Goodman, per esempio, morirà in circostanze misteriose qualche anno più tardi, mentre il medium rumeno Giulio Tasnad sosterrà di aver avuto, un venerdi notte ascoltando l'album, un incontro ravvicinato con il Maligno dopo aver sapientemente disposto su un tavolo otto dei simboli magici che campeggiano sulla copertina dell'album ed aver letto all'incontrario il testo di "Devil's Letter", episodio cardine dell'opera: un'invocazione (fra le prime, se non la prima, nella storia del rock) compiuta dallo stesso Goodman, lanciato nell'evocativa lettura di una lettera risalente al 1624 dell'occultista Asmodeo.
Fortunatamente, oltre che alle presunte proprietà magiche, "Neque Semper Arcum..." può vantare ottimi contenuti musicali. Ed è la musica, infatti, la vera magia di questo album, fra le più alte manifestazioni dell'arte di Magus Antonio. Anzittutto torna con prepotenza la chitarra (ricordiamoci, infatti, che nel precedente "Tardo Pede in Magiam Versus" a dominare erano le cupe evoluzioni dell'organo di Charles Tiring): "Neque Semper Arcum..." è ad oggi l'album più violento mai partorito dalla band (già dai lavori successivi, infatti, il sound dei Nostri ripiegherà verso lidi maggiormente sperimentali).
A dominare è il poderoso talento chitarristico di Bartoccetti, mai stato così prolifico di riff ed intuizioni come in queste sei osservazioni: le rocciose visioni sabbathiane della chitarra, fra maestose litanie doom, imponenti cavalcate metalliche ed assoli fulminanti, fanno di questo album un gioello nero di compatto prog esoterico, continuamente percorso da sussulti orrorifici. Provvidenziale è il gelido organo della Norton che minaccioso sorregge ed accompagna le trame chitarristiche del proprio compagno. Le scarne percussioni a mano di Goodman, infine, scandiscono solennemente le evoluzioni imprevedibili di questa opera, che più che un album rock, ci appare come un vero e proprio rito misterico.
A stupire, tuttavia, non è l'invidiabile perizia tecnica dei musicisti, né l'innegabile intelligenza delle costruzioni qui presenti, bensì la capacità unica della band di sapersi drasticamente trarre al di fuori degli umori della propria epoca, di saper confezionare un lavoro fuori dal proprio tempo: un lavoro che, pur finendo per suonare innegabilmente seventies, continua ancora oggi a stupire per l'originalità, per la capacità di anticipare e di porsi al di fuori e al di sopra di ogni confronto. Confronto negato perfino con gli stessi Black Sabbath, padri ed alfieri del doom settantiano (nonché innegabile influenza per Bartoccetti, insieme alla poetica allucinata dei Van Der Graaf Generator): proprio nella reiterazione dei riff martellanti, in un contesto assolutamente scevro da influenze blues, tentazioni easy rock e reminiscenze freak ereditate dagli anni sessanta (che continuavano a macchiare le performance dei ben più acclamati colleghi d'oltre Manica) sta la rivoluzione chitarristica di Bartoccetti, misconosciuto profeta del più autentico heavy metal.
L'opener "Neque Semper Arcum" si apre con il maestoso organo della Norton, sul quale si fa strada il suggestivo recitato di Magus Antonio: un "j'accuse", il suo, rivolto ad un mondo moderno che ha rinnegato ogni sorta di profondità spirituale. Un'arringa infuocata contro coloro che "sono destinati ad adorare oro e sesso", che "possiedono ville d'avorio con servi, ma senza porte", che "non possono fare altro che pagare ogni sì", che "vogliono capire la profondità del lago standosene a riva". Un climax emotivo che trova sfogo a metà del brano, quando tutta tace, tranne il vento, e la voce cavernosa di Bartoccetti recita sontuosamente: "Lontano, dove vaga lo spirito del vento, a coloro i quali hanno parlato la lama del Fato ha tagliato le lingue; adesso, i loro corpi ondeggiano fatalmente sulla corda dei cipressi; adesso, la mia chitarra suonerà per loro", e a scuoterci è un chitarrone che più tamarro non si può, un potente riff che in un istante ci scaraventa dalle ombre di un minaccioso mondo gotico al polverone soffocante di un imponente sabba metallico. Ha origine così una travolgente cavalcata dove riff rocciosi duettano con temi dissonanti di organo: una spirale sonora che ha del magico, che suona come un'inequivocabile invocazione (ricordiamoci che Bartoccetti si era laureato in filofofia con una tesi dal titolo che è un programma: "I poteri evocativi della chitarra"!).
L'organo di "Pactus" è una degna prosecuzione dei toni foschi del pezzo d'apertura: continua imperterrita la crociata contro la modernità, contro l'influenza e il potere nefasto dei media, della televisione (continui sono i rimandi sociologici in quest'opera che dietro al paravento sovrannaturale si rivela saldamente legata a problematiche di tipo sociale ed ambientale). Nel finale, accompagnati da pacate percussioni a mano, si avrà modo di saggiare anche il talento melodico del chitarrista, che si prodiga in un elegante assolo dai soffici risvolti jazz.
"In Hoc Signo Vinces" e "Non Fiat Voluntas Tua" tornano a dipingere, con violenza e paranoica ossessività (difficile in quegli anni rinvenire un'incarnazione rock egualmente folle e deviata), i consueti scenari da inquisizione. La prima è un brano strumentale che richiama da vicino la mitica "Triumphatus Sad", in assoluto uno dei primi saggi di heavy metal in senso stretto (che troviamo nel primo album degli Jacula "In Cauda Semper Stat Venenum", del 1969!). La seconda è nuovamente incalzata dalle tonanti accuse di Bartoccetti, e con essa l'album prosegue all'insegna di massicci arrembaggi chitarristici: mazzate di chitarra che, private dell'elemento ritmico, rimangono come sospese nel vuoto, minacciose, impalpabili, ipnotiche. Accarezzate, accompagnate, smaterializzate dall'organo morboso della Norton.
Si arriva così alla celebre "Devil's Letter", orrorifica escursione in territori propriamente non-musicali, dove la chitarra di Bartoccetti si cheta e a dominare sono piuttosto i silenzi, gli scricchiolii, i passi, i cupi contrappunti gregoriani, l'invocazione di Goodman. Del potere evocativo (in tutti i sensi) del pezzo si è già detto in apertura.
L'opera si conclude con l'episodio più violento del lotto, la formidabile "Aquila Non Capit Muscas", ultimo monito rivolto al "piccolo uomo fallito" bersagliato senza pietà per tutta la durata del platter. Aperto da cupi rintocchi di piano e squarciato da umori sadici, il brano ci conduce nelle segrete più profonde del castello, in un un clima di sevizie eterne, e si chiude alla grande con una incalzante marcia gotica che potremmo definire thrash metal ante litteram. Mi torna alla mente, non a caso, un passaggio di "Raining Blood" degli Slayer, tanto per rimarcare la potenza anticipatrice della tecnica chitarristica del Bartox ed al contempo l'inusitata violenza con cui il lungimirante chitarrista ha saputo macchiare a fuoco le orecchie dei malcapitati dell'epoca (abituati a ben altri canoni di violenza).
Dunque, amanti del prog nostrano: ci troviamo innanzi ad una creatura più unica che rara, in Italia come nel mondo, ieri come oggi (a salti di pause decennali, l'attività della formazione marchigiana arriva fino ai nostri giorni: si pensi al recentissimo "Switch on Dark"). Ignorare gli Antonius Rex e più in generale il talento di Antonio Bartoccetti, fra un risolino di scherno ed uno sterile snobismo da quattro soldi, è il peccato più grande che possa compiere chi si ritiene un vero intenditore di musica. Perché, gente, è di vera musica che stiamo parlando!
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