Torna la premiata ditta Bartoccetti/Norton. Un'attesa durata 26 anni, se si pensa che l'ultimo full-lenght ufficiale, il seminale "Praeternatural", risale all'"anno demoni" 1980. Un'attesa solo in parte soddisfatta con l'esperimento dello scorso anno "Magic Ritual" (cd/dvd in cui si rielabora materiale video ed audio del passato), da considerare non più che un gustoso antipasto in vista del già da tempo annunciato ritorno sulle scene della leggendaria formazione tricolore, rilanciata negli ultimi anni dalle provvidenziali ristampe della Black Widow.
Con questo "Switch on Dark" il discorso sembra riprendere esattamente da dove era stato interrotto. Di fatto, al di là della "scorsa modernistica" data da un attento lavoro di produzione, che adegua i suoni ai canoni odierni ed introduce soluzioni di elettronica inedite per la band, quello che Magus Antonio e consorte ci propongono è un ottimo album di dark progressive come solo loro sanno fare: sei lunghe e visionarie composizioni, in bilico fra atmosfere sognanti, momenti orrorifici e veri e propri arrembaggi metal, che vanno a formare un oscuro e suggestivo viaggio, una vera e propria esperienza mistica, volta, come recita una frase nel booklet, alla ricerca del proprio Silenzio Interiore. Una musica che non ha fretta, la loro, che gioca sulle sfumature e si evolve in modo ragionato e con la decisione di chi sa quel che fa. Una musica che procede cautamente, per osservazioni, spunti, accenni, in un alternarsi continuo di pieni e di vuoti, di assenze e Presenze. Una musica che porta in sé anche il fascino delle tematiche occultistiche ed esoteriche che qui vengono affrontate, tematiche che da sempre costituiscono il marchio di fabbrica dei Nostri, che per l'occasione si avvalgono del contributo filosofico e paragnostico della medium rumena Monica Tasnad, chiamata anche a prestare la sua "witch vox" in più di un episodio.
L'elemento ritmico, come vuole la tradizione in casa Bartoccetti, è ridotto al minimo indispensabile (un vero ossimoro, se ci pensate bene, per una band dedita ad un genere come il progressive), lasciando come consueto enormi spazi alla meditazione e al respiro ambientale delle tastiere, dei sintetizzatori e dell'orchestra "digitale" allestita dalla sempre ottima Norton. Un sentiero tortuoso e del tutto imprevedibile è quello che ci accingiamo a percorrere.
Possenti orchestrazioni dal sapore cinematografico, pompose costruzioni sinfoniche dall'andamento marziale, cori gregoriani dai minacciosi toni inquisitori s'intrecciano in trame inquietanti volte a ricreare, tassello dopo tassello, una dimensione fantastica ed inquietante. Poi lo scroscio di un temporale, il ticchettio della pioggia, il sibilare del vento: all'improvviso tutto si ferma, la musica si decompone, si accartoccia in se stessa e si annulla definitivamente nel silenzio, in oscuri e minimali fraseggi ambientali. Rintocchi di campana, un fruscio, una porta che sbatte. Un'atmosfera tesa, sul "chi va là". Poi un grido, un vetro che s'infrange, una porta che si spalanca, un rumore improvviso che ci scuote ed apre la strada ad una nuova dimensione musicale: le maestose aperture di organo della Norton, il gelido piano che tesse inquietanti melodie, gli attacchi chitarristici del Maestro, che si destreggia abilmente fra ossessivi momenti doom, ritmiche accattivanti e pregevoli assoli dal gusto settantiano. Una chitarra evocativa, la sua, capace di edificare un rito che ha del mistico, di ricamare simboli, di porre enigmi, di delineare geometrie come sempre personali ed affatto banali. E come al solito usata con parsimonia (ma al tempo stesso con estrema efficacia), come se ogni nota avesse un significato profondo, un'energia speciale che non deve essere in nessun modo sprecata.
Un album, questo "Switch on Dark", pervaso da un inedito romanticismo, animato da una atmosfera fantastica, a tratti sensuale, da notte fatale, fra sussurri di streghe e amplessi di fata. Dove niente è come sembra. Dove il cammino si fa irto di trabocchetti ed ingannevoli apparenze. Dove il più dolce dei richiami potrebbe essere in realtà la più pericolosa delle insidie. Sensazione rafforzata dall'eleganza degli arrangiamenti (mai così curati) e dalla produzione moderna e sofisticata, curata del figlio stesso di Bartoccetti, meglio noto nelle scene della techno più spietata con il monicker Rexanthony.
Capolavoro? Non saprei dire con certezza, poiché è difficile distinguere fra le emozioni riconducibili al valore dei contenuti intrinseci dell'album e quelle che nascono invece dal richiamo, fra una citazione e l'altra, dei capolavori del passato. Certamente saranno il tempo e i ripetuti ascolti ad illuminarci, ma per adesso, a quasi due settimane dall'acquisto, posso dire che sono sostanzialmente tre i punti deboli che secondo me presenta questo pur ottimo "Switch on Dark", punti di debolezza che individuo ed espongo ad esclusivo titolo personale, poiché riguardano impressioni relative alla mia soggettiva ricezione di un lavoro sotto tutti i punti di vista inattaccabile. E premetto che la mia severità scaturisce proprio dalla stima infinita che nutro verso questi artisti. (Rimango naturalmente nella speranza di potermi nel tempo ricredere, cosa per altro possibilissima, dato che si parla di musica per niente immediata e che necessita di essere assimilata. )
Punto primo: al di là dei suoni moderni e degli inserti di elettronica, non si percepiscono grandi novità rispetto al passato, ma soprattutto non si trova corrispondenza fra la musica qui presente e l'altisonante etichetta "Mysticdrug for the Next Generation" che campeggia sul retro di copertina. Seppur profondamente ispirato, il song-writing rimane di fatto fortemente ancorato a certi stilemi delle decadi passate, in particolare a certe sonorità degli anni settanta ed ottanta, e difficilmente potrebbe essere definito come un qualcosa volto al futuro e diretto alla prossima generazione. E ciò, seppur comprensibilissimo, porta con sé una sfumatura di amarezza, se si pensa ad un artista come Antonio Bartoccetti, che da sempre fa dell'innovazione, del coraggio e dell'intransigenza la sua arma più affilata. Un artista unico, fuori dagli schemi, spesso non capito ed apprezzato in tutto il suo valore, anticipatore (ricordiamoci che "In Cauda Semper Stat Venenum" degli Jacula, prima incarnazione degli Antonius Rex, è datato 1969) di uno stile chitarristico che spopolerà grazie ai ben più celebri Black Sabbath. Un chitarrista alieno, geniale, magico, il vero Sacerdote delle sei corde, capace, come pochi altri, di saper trascendere il proprio tempo... e scusate l'eresia, per dirla tutta, nemmeno il dio della chitarra Hendrix, ancora troppo legato agli stilemi blues, è riuscito ad emanciparsi così tanto dagli umori della propria epoca.
Punto secondo: ci tocca registrare con enorme dispiacere l'abbandono di certi elementi peculiari della band. Il suggestivo recitato di Bartoccetti, per esempio, è pressoché assente (solo, di tanto in tanto, viene accennato il titolo di qualche brano), mentre il latino e l'italiano vengono rimpiazzati da un ben più banale inglese. Cosa che comunque non incide più di tanto, dato che l'album è praticamente strumentale, se si eccettua il canto angelico (della Norton?) che compare ad un certo punto nella title-track. Ma non solo: le linee ritmiche (che siano programmate od eseguite da un batterista in carne ed ossa) appaiono troppo lineari e banali, appiattendo l'intelligenza di certi passaggi agli standard più scontati di un più canonico hard-rock. Ed anche questo non può che dispiacere, se si pensa al coraggio di un album come "Tardo Pede in Magiam Versus (sempre degli Jacula) totalmente aritmico e pressoché privo di chitarre: la perfetta antitesi di quanto ci si poteva aspettare da un gruppo rock nei primi anni settanta, in cui a spopolare erano le bordate elettriche di gruppi come Deep Purple e Led Zeppelin.
Punto terzo: la produzione, seppur estremamente curata ed eccellente da tutti i punti di vista, appare troppo leccata e patinata per una band come gli Antonius Rex, la cui forza sta nella suggestione ed nel potere evocativo della musica proposta. Gli organacci sfrigolanti, le chitarre sporche, le inquietanti escursioni cosmiche e rumoristiche, tutto ciò viene ridimensionato e reso più terreno da suoni sofisticati e perfettamente bilanciati, e a risentirne è secondo me l'atmosfera dell'album nel suo complesso, che in parte perde il peculiare senso di mistero e di arcano rituale che da sempre caratterizza la musica della band, avvicinandosi piuttosto a certi territori fantasy tipici delle band epic e power metal di oggi (e la copertina, a mio parere un po' pacchiana e scontata, ne è un coerente riflesso).
E così, ad un primo ascolto, potrà capitarvi di provare una punta di delusione per via dei suoni troppo soft e definiti che tolgono incisività alle chitarre e conferiscono al tutto un tono di leziosità. Ma vi assicuro che sarà solo un problema momentaneo. L'esempio emblematico è l'opener (e singolo apripista) "Perpetual Adoration", che all'inizio potrà risultare un po' stucchevole nel suo incedere a metà strada fra Dead Can Dance ed Enigma, ma poi, con i successivi ascolti, si rivelerà nella sua semplicità uno dei momenti migliori del lotto. E da qui riparte la rivalutazione dell'album intero: le atmosfere inquisitorie di "Damnatus in Aeternum" (l'episodio più avanguardistico e ricollegabile al passato più remoto della band), i venti monumentali minuti della sinfonica title-track (fra gorgheggi eterei, pseudo-growl ed eleganti passaggi prog); gli assalti chitarristici di "Darkotic" (quasi thrash nel suo incedere) e "Fairy Vision" (raggelante nelle sue atmosfere gotiche), fino alle litanie gregoriane della conclusiva ed inquietante "Mysticdrug".
Le molteplici sfumature, i repentini sprazzi di genialità, i simboli da cogliere, gli strati concettuali da svelare: un album, questo "Switch on Dark" davvero ben congegnato e dall'innegabile profondità filosofica, capace di rivelare il suo potenziale solo dopo ripetuti ascolti e di condurre alla completa assuefazione, fino al punto che sarò impossibile farne a meno (e forse proprio in questo senso è lecito parlare di "droga mistica"). Un'opera, infine, che ci consegna un artista tutt'altro che da pensione, un artista fresco e nel pieno della creatività, capace di gettare un ponte alle nuove generazioni, senza peraltro perdere l'innata originalità.
Che dire, senz'altro all'altezza dei suoi illustri predecessori, forse una spanna sotto per i motivi sopra elencati. Chi ama e conosce la band di certo non rimarrà deluso, mentre chi ne sente parlare per la prima volta, e magari ha un debole per gruppi come Van Der Graaf Generator, Goblin, Black Sabbath e Tangerine Dream, è invitato immediatamente a fare propri i lavori di Jacula e i masterpiece targati Antonius Rex, in particolare "Neque Semper Arcum Tendit Rex"e il già citato "Praeternatural". Oltre che naturalmente questo splendido "Switch on Dark".
Magister dixit
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