All'alba degli anni '90 il mito Celtic Frost giaceva sepolto ed infranto, ferito mortalmente da quell'incredibile suicidio artistico (e di credibilità) chiamato "Cold Lake" e nulla poterono i seguenti lavori, cioè il mediocre "Vanity/Nemesis" (vero canto del cigno della combo elvetico) e la comunque sfiziosa raccolta "Parched....", per riportare in vita le vestigia ancestrali, l'ispirazione artistica, la magniloquenza di una band che seppe spostare i limiti del metal estremo un passo (sarebbe più corretto dire un decennio) più in là ad ogni uscita discografica.

Caduto nel più profondo oblio compositivo, il vate dell'avantgarde metal Tomas G. Fischer riuscì solo un lustro dopo l'ultima pubblicazione ascrivibile al Ghiaccio Celtico (la già citata raccolta edita nel 1992) a riemergere sotto l'egida Apollyon Sun, monicker che il nostro si portava dietro sin dai tempi dello scioglimento dei Frost (tant'è che così si sarebbe dovuto chiamare il mai pubblicato loro ultimo disco pre split up e così pure si chiama l'ultima song inedita pubblicato sempre nella raccolta di cui sopra): la sofferta resurrezione si concretizzo così con l'Ep "God Leaves [and Dies]" , per poi acquisire una dimensione maggiormente definita e precisa con l'album in oggetto di recensione, "Sub", edito nel 2000 dalla misconosciuta label Mayan Rec..

Chiamati a raccolta il chitarrista Erol Unala (per un periodo membro anche della successiva reunion dei Celtic Frost), l'ottimo drummer ex Coroner Marky Edelmann e due perfetti sconosciuti di nome Danny Zingg (basso) e Donovan Szypura (sampling and programming), il nostro T.G.Warrior ci propone un album enigmatico, obliquo, instabile, fortemente deviato (gli anglofoni direbbero "twisted and sick"), morboso, che convince solo in parte, vuoi per l'efferatezza musicale difficilmente assimilabile se non dopo svariati ascolti (ma questo potrebbe essere anche una sorta di filtro per orecchie non particolarmente educate alle stranezze insite nel modo di fare musica del nostro elvetico), vuoi per un uso abbondante della componente industrial, nella fattispecie virata dub e trip hop.

Non convenite a facili giudizi negativi: la base dei brani e chiaramente metal, e anche di una certa possanza, un metallo magmatico e perlopiù fondato su ritmi lenti ed ossessivi, che anticipano di fatto le sonorità che diverranno caratteristica preponderante in "Monotheist", anche se il tutto viene elaborato attraverso un uso freddo e cibernetico dell'elettronica (ivi compresi i numerosi campionamenti e l'uso effettato delle vocals), una visione distorta ed onirica filtrata per mezzo di quella componente dub e trip hop che maggiormente si esprime attraverso loop, tastiere dissonanti ed un drum set spesso sovrapposto a quello umano e che un po' ricorda (anche se rallentato fino al parossismo) i Pitchshifter di "www.pitchshifter.com".

In verità non ci sarebbe nulla di cui stupirsi dato che il seme di questa virulenza fu gettato già nel seminale "Into the Pandemonium", con la song "One in their Pride", tanto da avvalorare la tesi secondo cui T.G. Fischer abbia sempre guardato con notevole interesse l'elettronica applicata alla musica.

Se il mood generale dell'album in questione è quello sopra elencato, emergono in alcune rare occasioni anche break più intimistici ed ariosi, che trovano nella delicata e depressa gothic song "Slander" la loro summa, e che comunque danno all'ascoltatore modo di stendere i nervi in attesa della successiva compressione sonora.

Compressione sonora che sin dall'opener "Dweller" accompagna l'ascoltatore attraverso i circa 46 minuti di alienazione che i nostri sanno proporci; d'altronde l'incipit che viene pronunciato dalla prima frase dell'opener stessa è << "What's this drug that screw your mind?">>, quindi cosa pensate di potervi aspettare?

L'unica nota davvero negativa la dedicherei a "Human", scarso tentativo di plagio della sezione ritmica di "Beautiful people" del reverendo Manson, quando ancora il succitato reverendo aveva qualcosa d'interessante da raccontare al mondo.

Appendice di colore: è presente una versione abbastanza stravolta e lisergica del classico "Messiah", che sicuramente rende bene l'idea delle intenzioni indubbiamente rivoluzionarie che presero piede nella mente (scusate il gioco di parole anatomico) del nostro Tomas nel periodo in cui il progetto Apollyon Sun raggiunse il suo zenit.

In definitiva, "Sub" è un album interessante anche se non perfettamente centrato, che comunque possiede il merito di riportare in vita (artistica, s'intende) una leggenda, tanto da poter considerare l'album in oggetto di recensione come un ponte, un tramite extra dimensionale, fra il passato glorioso ed il futuro ancora inesplorato dei Celtic Frost.

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