Mettiamo subito le cose in chiaro: "As Days Get Dark" degli Arab Strap è un disco strepitoso, uno di quelli che si insinuano lentamente ma anche inesorabilmente sotto pelle, solo come i grandi dischi sanno fare.
I tre singoli avevano creato non poche aspettative, (forse "The Turning of Our Bones" il migliore del terzetto) tutte rispettate. Non c'è un momento in cui la tensione cali, un momento che si possa considerare prescindibile. Le atmosfere sono simili un po' in tutti i brani, ma questo non fa altro che rendere il disco straordinariamente compatto e mai ripetitivo.
Anche i pezzi che all'apparenza potrebbero sembrare meno sorprendenti nella struttura, riservano uno spunto o una scelta nell'arrangiamento che impreziosisce il tutto. (Ad esempio "Another Clockwork Day" o "Bluebird"). Magnifica "Kebabylon" che in certi frangenti si serve di soluzioni sonore che sembrano quasi un tributo a "Disintegration" dei Cure, ma anche a "Blackstar" del compianto Bowie, con quell'uso per nulla convenzionale del sax.
Con "Tears On Tour" siamo in territorio National, mentre "Fable of the Urban Fox" nella parte iniziale è la più spoglia del lotto, ma successivamente il pezzo cresce a dismisura in intensità tra synth e splendidi archi. (Eccome se ci sanno fare con la dinamica..).
"Sleeper" poi, con i suoi sei minuti abbondanti, è fra le vette del disco: splendide atmosfere ed ispirazione ai massimi livelli, chapeau. Ma ciò che forse colpisce sopra ogni cosa, è il modo unico di cantare di Aidan Moffat, con quel misto di spoken word e cantato, perfettamente in linea col significato dei testi: crudi, cupi, carnali, mai ruffiani o rassicuranti. Impossibile non rimanerne affascinati.
In conclusione, un disco senza alcun punto debole in cui il rock incontra il songwriting e che, salvo uscite da lasciare senza fiato nei prossimi mesi, di prepotenza entrerà come minimo nella top 10 dell'anno. Sì, ne è valsa la pena aspettare sedici anni.
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