"Elizabethtown", anno 2005, regia di Cameron Crowe: il protagonista maschile, Drew (Orlando Bloom), si aggira per i corridoi di un hotel extra-lusso parlando al telefono con la hostess di una compagnia aerea, Claire (Kirsten Dunst), conosciuta il giorno prima durante un volo verso il Kentucky. Da qui, si sarebbe recato ad Elizabethtown per i funerali di suo padre Mitch, rincontrando dopo molti anni il ramo paterno della sua famiglia. Ci va da solo: sua madre non è esattamente in ottimi rapporti con la famiglia del marito per vecchie questioni che qui non è il caso di snocciolare. Come se non bastasse, Drew ha appena perso anche il lavoro e la ragazza, e ha "ben" pensato, e tentato, di farla finita con un grosso pugnale da cucina che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto trafiggerlo ponendo fine alle sue pene. Quand'ecco che squilla il telefono: all'altro capo c'è sua sorella la quale lo informa del passaggio a miglior vita del suo vecchio. Decide dunque di partecipare al funerale nella terra natale di Mitch, per poi tornare a casa e "terminare il lavoro". Nulla l'avrebbe fermato.

Entra in una suite la cui porta era stata lasciata aperta, sottraendo due bottiglie di birra. Su quella porta (e su quelle delle camere vicine) campeggia la scritta "Cindy & Chuck forever", all'interno di un cuore in cartoncino. Cindy e Chuck sono due futuri sposi, che intanto se la stanno spassando separatamente, in altre camere, con i rispettivi amici, per un festaiolo addio al celibato/nubilato. E' qui che al Nostro si para davanti un ometto in accappatoio vagamente alticcio: è proprio Chuck il quale inizialmente appare contrariato per il furto, ma che quando viene a sapere il motivo per cui Drew si trova in quello stesso albergo scoppia a piangere a dirotto, in una delle scene più esilaranti del film, nella quale alla fine è proprio l'orfano a consolare il promesso sposo. 

 

Nella "disperazione", Chuck farfuglia qualcosa come "...E sono lì, vita e morte e morte e vita, sono tutt'e due lì, una accanto all'altra: c'è soltanto un pelo che le divide..."

Già, la morte, grande mistero della storia umana. Mistero che porta lacrime, dolore, che può disperdere così come, al contrario, cementare intere famiglie. Dolore che può sfociare certo in rassegnazione, cinismo, nichilismo, ma anche in voglia di vivere, in affermazione della vita.

D'altronde Kierkegaard lo diceva: toccato il fondo non puoi che risalire. E se uno ci pensa bene, in tema di lutto gli Arcade Fire da Montreal, Canada, durante la realizzazione del loro primo album, il fondo devono averlo toccato. Non è da tutti vantare il "primato" di perdita di persone care in un lasso di tempo così breve come quello tra l'inverno del 2003 e i primi mesi del 2004: sette famigliari di vari componenti (sette anche loro, ma in tour il numero aumenta) della band sono infatti passati a miglior vita in quel periodo. Ora, il disco che può uscire da una tragedia di siffatte proporzioni può benissimo essere una raccolta di ballate strappalacrime, e sfido io! Ma non è questo il caso.

 

L'album in questione, il cui titolo è (manco a dirlo) "Funeral", affronta sì, nelle liriche, temi di morte: neve che ricopre intere città seppellendo e immobilizzando le dita dei genitori (Neighborhood #1 e Neighborhood #3), odi a sorelle che non ci sono più (Backseat), fratelli maggiori che partono per la guerra (Neighborhood #2) (Si, c'è anche il Vicinato #4).

Il tutto, però, in un contesto musicale baroque folk-pop-rock con arrangiamenti maestosi, operistici e... quasi festaioli! Canzoni che ti prendono per mano nel momento critico, del pianto, della disperazione, e ti conducono nella fase in cui pensi "Ok, rimbocchiamoci le maniche e cerchiamo di dare un senso a questa vita" oppure "Non voglio sprecare un solo momento della vita che mi resta davanti". Insomma quella fase in cui, per contrasto con ciò che un tuo caro ha appena perso (guadagnando magari qualcosa di immensamente migliore, eh), ti rendi conto di quanto sia bello ciò che tu hai ancora davanti. "Une annèe sans lumière", a tal proposito, è esemplificativa: strofa/ritornello/strofa/ritornello in un'atmosfera non dico cupa ma certo non esaltante (per quanto bellissima) e poi esplosione di riff di chitarra elettrica ed "Ehh!" che si rincorrono in un crescendo oserei dire euforico, in una sorta di rovesciamento, di aprosdoketon (!!!). Quel che si verifica, in realtà, anche in Crown of Love e nel capolavoro, inno generazionale, Wake Up. Brani, questi, che (come nella già citata "Anno senza luce") prendono una svolta improvvisa verso la loro fine: nella prima, il phatos di un uomo che chiede perdono probabilmente alla sua amata deflagra in una coda stile dance anni '80, nella seconda l'epica rock maestosa dei primi 4 minuti lascia spazio ad un tripudio di scampanellii e tintinnii che adornano quella che potrebbe essere benissimo una delle filastrocche cantate in un classico film in cartone animato Disney, per poi tornare prepotentemente, giusto in tempo per la chiusura. 

I versi più belli? Probabilmente quelli in cui Win Butler (voce e chitarra), fratello di Will (chitarra ma anche basso, cori, tastiere, xilofono, tamburo e tamburello - no, davvero!) e marito di Regine Chassagne (voce, cori, fisarmonica, pianoforte, batteria e ancora xilofono, tamburo e tamburello - davvero anche stavolta), con la voce teatrale che lo contraddistingue, canta (e forse prega) in Neighborhood #1:

"Purify the colours, purify my mind

purify the colours, purify my mind

and spread the ashes of the colours over this heart of mine!"

("purifica i colori, purifica la mia mente, purifica i colori, purifica la mia mente e spargi le ceneri dei colori sopra questo mio cuore")

Ci troviamo insomma di fronte ad un disco che verrà ricordato negli anni, magari nei decenni e in secula seculorum, e a ragione. Ad un disco che ha fatto letteralmente innamorare addirittura David Bowie di questa family band. Ad un disco acquistato (la leggenda narra, ma è una storia vera) in blocchi di decine di copie dallo stesso duca bianco per distribuirlo in regalo ai suoi amici. Ad un disco che dà euforia, che afferma la vita. E di questi tempi... !

 

[Le righe successive sono riservate a coloro che hanno già visto il film "Elizabethtown" o che, semplicemente, non prendono neanche in considerazione l'idea di vederlo, dunque coloro a cui non rovinerei la festa svelandone il finale.]

 

Per la cronaca: ricordate Drew? Bene, la madre, grazie ad un'esibizione di tip tap durante la cerimonia di addio a Mitch viene accolta in famiglia (a proposito degli inaspettati "poteri riappacificanti" di un lutto) , e lui alla fine si innamora di Claire (maguardaunpo'ehchiselosarebbemaiaspettato?), abbandonando evidentemente il suo macabro progetto, visto che le ultime parole (sue e del film) sono: "Un piccolo germoglio di vita è in grado di crescere anche nel cemento; il salmone del nord-ovest del Pacifico è pronto perfino a morire per la sua ricerca, viaggiando centinaia di miglia controcorrente con un unico scopo: il sesso, naturalmente, ma anche... la vita." 

 

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