In questi tempi di download selvaggio, blog, portali e tutto ciò di cui internet fa la sua fortuna, niente sembra più essere inaccessibile. E, anzi, negli ultimi anni (si parla di musica, ma anche di cinema e letteratura) è stato possibile venire a conoscenza di molte realtà parecchio lontane da noi, il più delle volte senza troppa difficoltà. Si pensi solo alle ultime, cronologiche scoperte. Partendo da quel tanto incensato (pure troppo forse) teenager-movie chiamato Donnie Darko, realizzato un biennio fa e malaccolto in patria e poi, grazie ad un vorticoso passaparola, distribuito in tutto il mondo. Oppure a Dave Eggers, l’autore de "L’Opera Struggente Di Un Formidabile Genio", diventato d’un botto esponente rilevante di certa letteratura contemporanea che getta lo sguardo sul concetto di post-moderno.
O, ultimo, parlando di fenomeni musicali, quei Radio Dept il cui successo devono tutto al passaparola elargito grazie all’esistenza di migliaia (milioni?!) di blog esistenti nella sterminata bocca del net.
Questi sono solo tre dei tanti casi (tra l’altro forse i più sopravvalutati) esplosi nell’ultimo biennio e il fenomeno è ora diventato a tal punto trascinante da sembrare inarrestabile.

Gli Arcade Fire, combo canadese di una quindicina di elementi, non fanno eccezione. E forse questa volta ci siamo. “Funeral”, uscito ufficialmente un annetto fa nel loro paese di provenienza e munito di discreto hype, è arrivato da un mese circa anche qui da noi. E ci risiamo.
Tanto vale dirlo subito, però, a scanso di equivoci, stiamo parlando di un bel disco, che ha bisogno di un po’ di ascolti e forse della mente sgombra di pregiudizi. Ci sono cascato anch’io. Inizialmente, questa storia della rivoluzione canadese, dei passaparola, del fatto che ogni anno dovesse avere la sua scena, i suoi capolavori che dopo una decina di ascolti vanno a morire tra le polveri domestiche.
Insomma avevo tutti i motivi possibili e immaginabili per dubitare.

Eppure, quest’esordio degli Arcade Fire è un gran bel dischetto, pieno com’è di intensità, emozioni e almeno un pugno di canzoni memorabili. Capolavoro? Ohhhhhh, che palle! Dimentichiamoci quel vocabolo per un momento e immergiamoci, invece, nelle vaporose atmosfere, a volte poco vaghe, di ispirazione ’70 e del periodo più ispirato del Duca Bianco. A tal proposito, ascoltare l’opener e, prima traccia della “quadrilogia del vicinato”(!?), Neighborhood#1 (Tunnels). Eh? Allora che ne dite?
E cosa proferire della successiva “Neighborhood#2 (Laika)”, strascicante composizione colma di quella fascinosa e irresistibile bruma ’80 che ci avvicina ad atmosfere alla Echo And The Bunnymen e inclinazione Talking Heads, e caratterizzata da un ottimo arrangiamento e bellissimi contrappunti di fisarmonica? Contagiosamente romantica.

La cosa che più sorprende è che, nonostante i nostri ci si sparpaglino in decine e decine di influenze, l’insieme alla fine resti poco dispersivo e ben calibrato.
Non c’è un brano minore in scaletta, solo qualcuno che spicca di più. L’affascinante Une Année Sans Lumière o le tentazioni wave e danzereccie del terzo capitolo della quadrilogia e di Rebellion (Bowie è sempre dietro l’angolo), per esempio. Quella dolcissima sinfonia degli amori perduti che è Crown Of Love. Notevole. Anche qui i canadesi giocano con riferimenti più o meno noti, arrivando a volte persino a risultare un po’ troppo magniloquenti e citazionisti, ma comunque sempre più che credibili grazie ad una scrittura e ad una padronanza di mezzi invidiabile.
Il disco vede il suo compimento nella gentile e notturna ballata In The Back Seat dove sembra di sentire i Portishead privati di ogni istigazione elettronica a favore del calore di poco più di una chitarra acustica, archi, e una voce caldissima a dare il colpo di grazia. Questo fino a metà, più o meno, perché nel refrain una chitarra elettrica rompe, seppur moderatamente, la quiete iniziale ed è veramente un bel sentire.

Bravi, non c’è che dire. E poi, quella copertina… uhm, una delle più belle degli ultimi tempi.

Carico i commenti...  con calma