Fra i gruppi incensati dallo Scaruffi (vero e prorio recurring nightmare di ogni musicofilo a spasso quotidiano per la rete), ci sono questi Archers of Loaf, formazione di Chapel Hill sconosciuta ai più. Trattasi di un indie-rock dai suoni ruvidi e dal piglio maldestro, pavementiano fino all’osso, che cita i Replacement e il rumorismo trasandato e un pò psych dei Polvo - tanto per restare entro i confini cittadini - con foga e noncuranza garage-punk. Pezzi semplici, con un gusto per le melodie sbrigative - la tipica deriva pop “sghemba” , le citazioni e i clichè da college rock - e la voce prescindibilissima di Eric Bachmann, divisa tra tentazioni spontaneo-amatorial-umoristiche e la testosteronica illusione, che diremmo autoindotta, di cantare sopra i pezzi dei Minor Treat invece di quelli del proprio gruppo.

Il disco, in verità, si apre bene: “Step into the Light” è un rock cadenzato ed atmosferico, dal sapore vagamente meditativo e settantiano, che offre spazio alle affascinanti – seppur non originalissime - approssimazioni delle chitarre, impegnate in duetti stonati e fragilmente elettrici, con le backing vocals del gruppo a riempire gli spazi. Con la successiva “Harnessed in Slums” la band mette in chiaro le cose – riff neo-beat in apertura e a seguire indie rock punkizzato e tiratissimo, con tanto di corazzi in stile Oi!, impastato di cangiante rumorosità chitarristica e semplici arpeggi a contrastare l’iper-vitaminico sbràito del vocalist. Mini-bridge alla Polvo, e poi di nuovo a capofitto fino ai 3 minuti e 16. La sua urgenza festaiola è davvero trascinante, per quanto risulti un po’ scontata e non propriamente brillante. Opaca e fuori fuoco è poi la prova nella successiva “Nevermind The Enemy”, fastidiosamente piena di cliché indie, a partire dalla pessima imitazione del Malkmus più svogliato al microfono e i feedback svergognati della chitarra, con un refrain insipidamente alternative ed insulsamente banale. “The Greatest of All Time” è una semplice ballata elettrica dal testo ironico, cantato con foga esilarante, ma niente di più. Molto meglio “Underdogs of Nipomo” , un po’ Polvo e un po’ Modest Mouse in salsa Black Flag. Forse il (poco?) fascino degli Archers sta in pezzi come questo. Certo non nella successiva “Floating Friends”, una delle peggiori imitazioni dei primi Pavement mai sentite, né nell’ arena-rock falsamente anthemico della scherzosa “ Fabricoh”. Di pessimo gusto risulta anche la celia neo-hardcore di “Nostalgia”, mentre “Let the Loser Melt” è (ormai) il pezzo tipico degli Arceri di Polpettone (Cristo!), con le sue metriche elementari e l’urgenza affabulatoria del cantato, gradevole ma non più di tanto. La “melodica” “Death in the Park” merita invece l’ascolto, umorale, più ragionata e costruita, con un paio di scelte armoniche davvero azzecate. Sconfortante l’infantile nichilismo declamatorio di “The Worst Is Yet To Come”, mentre le dissonanze bandistiche da fanfara psycho-cartoonesca della conclusiva “Underachievers March and Fight Song”, con tanto di “zufolata” fischiettante ad opera di un Bachmann insolitamente ispirato, meritano tutto sommato il prezzo del biglietto.

In conclusione, si tratta di una band fortemente dilettantesca, che sguazza nei luoghi comuni del rock indipendente agglomerando una manciata di rintracciabilissime influenze, e che ha nell’abrasività dello stile vocale, molto spiccato rispetto al contesto, l’unico vero elemento di personalità: un po’ pochino, e tutto sommato neache così ben speso. Fatevi un favore e ascoltatevi i Beatles, alla faccia degli indie taliban da “copia e incolla” slegati nella rete.

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