Quel pomeriggio di un giorno da cani è un capolavoro di girato dove il protagonista, Al Pacino, recita la parte di uno che si è ficcato per davvero in guaio, e sta mandando a puttane una rapina facile facile, tenendo in ostaggio un bel po’ di gente. La presenza di telecamere fuori dalla banca ha attirato molti passanti che, alla vista dell’assaltatore, lo accolgono come un salvatore della patria all’urlo di “Attica! Attica!”. E va bene, in un pomeriggio di scacchio dopo libro-film manca disco per completare la triade. "Attica Blues", a questo punto, ha l’acre odore della giustizia sudata col sangue buttato tra asfalto, cemento armato e, andando a ritroso, piantagioni. Archie Shepp, poi, non si nasconde dietro un dito. Ma torniamo al titolo dell’album. Ovviamente non si tratta di un blues greco. La storia di Attica è quella di una prigione statunitense in cui carcerati di pelle scura di varie tonalità sono incazzati perché lì dentro non ci sono più le condizioni per guardarsi allo specchio e vedere un essere umano. Siccome quel furbacchione del governatore se ne fotte, la situazione precipita. I colored s’incazzano, prendono in ostaggio i secondini e al quinto giorno, esasperati, commettono l’errore di farne fuori due. A quel punto, l’indifferenza delle autorità come d’incanto si sfata. Intervengono le forze speciali che mettono a posto la situazione al solito modo: 40 (quaranta) morti tra i detenuti. Benvenuti nella prigione federale di Attica, Buffalo, stato di New York, U.S.A. Un posto che ha l’ingresso simile a quello di Disneyland, nella buona tradizione delle mura che ti accolgono con crudele sarcasmo, e dove si perpetrano schifi immondi di cui solo certo genere umano è capace.

Archie Shepp ha scritto un album (1972) per questa vicenda in cui i diritti dell’uomo sono stati ridotti al diritto autoconferito dei bianchi di negare preghiere, carta igienica, cibo, acqua, doccia. Resta poco del periodo Coltrane perché questa prova è una di quelle dove ti gratti la testa, arrughi il viso e poi batti una pacca sul tavolino. Insomma, secondo me la configuri in un attimo di genialità, perché di questo si tratta. E la genialità, mossa da un occhio critico e radiologico, oltre che da un orecchio musicale proteso oltre i confini dell’ortodossia jazzistica, è quella dei semplici. Quindi diretta e libera. Come un lamento lirico, come la vista che trapassa il mattone rosso e ti fa ritornare nel mondo alla musica che corre verso la promiscuità, come le urla di chi non ha ancora buttato fuori tutto, come la vocina di un’infanzia speranzosa. Elementi, questi ultimi due, che servono a Shepp per fare pathos e che dal ’72 ad oggi, secondo me, hanno la validità dei dettagli di un film invecchiato bene, come quello citato. Attica Blues è una voce soggettiva che catalizza, però, e diventa vox populi. Qui non si fa di eclettismo ipertecnico virtù, ma si sceglie la strada della passionazza nera che si manifesta nelle gocce di sudore in controluce sotto coltre di fumo, per raffigurare un calvario razziale in tempi che a volte vanno contro se stessi . Si sente il bisogno di buttarla lì, commestibile e fantasiosa, in una forma di free jazz in cui la prima parola ha il peso maggiore.

È così che Shepp & C. incidono un album di cui la storia s’è garantita la prima copia. Il personale messo al lavoro è impressionante, perché deve dare voce al racconto in tutte le sue sfaccettature, farlo in maniera (neanche tanto sotto sotto) catchy e spaziare, prendere fiato (giocando coi fiati) ed annusare le nuances più forti del soul, del blues, del jazz, del funk e dello swing, con la mente di un architetto della produzione che conosce a menadito i vangeli dei grandi neri della musica del novecento. Impresa ambiziosa e riuscita, forse in qualche momento un po’ troppo “americana”, ecco, però c’è uno sviluppo dell’idea concettuale e musicale partito da uno punto di inizio e concluso col raggiungimento dell’obiettivo, anche con escamotage interessanti e aperture che (ora non so dirlo con precisione) forse prima di quell’anno non si erano ancora sentite. Ma mi piace, ecco, mi piace tantissimo perché potrebbe essere uno dei dischi che, insieme, ad esempio, a Bitches Brew, segna la chiusura di un periodo musicale che ha dato e ne determina una filiazione vivace e destinata a durare. Fare fusion di bistrattamenti gospel, aritmie funk, polpa blues, vivacità swing, orchestralità jazz in automatico ti porta ad essere, in extremis, uno dei nomi del ‘900 che verranno ricordati. Fosse solo per gli intenti civili. Ma c’è di più, c’è la capanna dello zio Tom che s’è fatta gabbia di cemento. E c’è un piccone a forma di sax, pronto a redimerla, distruggerla e cantare, ballare, trasalire voodoo dopo questo sacrificio che sa di liberazione.

Carico i commenti...  con calma