Sotto il sole caldo del deserto del Mojave, quattro giovani uomini camminano nei loro camperos neri e impolverati. Impettiti e soddisfatti, stanno raggiungendo il loro mentore, l'uomo che li ha presi sotto la sua ala protettiva e li ha fatti diventare dei veri uomini, delle vere rockstar.
Ce li ricordiamo ancora quando, pochi anni fa, erano nella piovosa Inghilterra a suonare nel garage di casa, nei pomeriggi dopo scuola. Cantavano di ragazzine loro coetanee in discoteca, erano insicuri e ancora inesperti con le loro chitarre. Ora sono cresciuti, sono degli uomini, sono la band del momento. Sono rimasti le scimmie artiche, ma stavolta volano alto sopra il cielo terso della California.
Basta ascoltare "Do I Wanna Know" per capire quanto siano cambiati. Chitarre affilate, batteria asciutta e sound che ricorda i primi vagiti del loro mentore, Josh Homme. C'è un velo di psichedelia che aleggia su ognuno dei dodici brani del disco nuovo, AM. La stessa psichedelia che quarant'anni fa aleggiava sulle canzoni dei Black Sabbath, e negli anni novanta sulle canzoni dei Kyuss. C'è la stessa melodia tagliente, lo stesso approccio. "R U Mine?" è forse l'esempio più palese di come la vecchia ma mai dimenticata "Paranoid" datata 1970 abbia fatto scuola e ancora sia fonte di ispirazione per chi vuole diventare una rockstar. E se vuoi entrare nell'olimpo delle rockstar, la cosa migliore da fare è non perdere mai il tuo stile inconfondibile, l'impronta che hai lasciato.
Gli Arctic Monkeys lo hanno capito bene, il trucco, perché a metà album piazzano due brani che rallentano il sound, che li fa tornare per pochi minuti a quei grigi pomeriggi a Shieffield dove tutto è cominciato. "N. 1 Party Anthem" e la successiva "Mad Sounds" spengono le granitiche esplosioni di hard rock per catapultarsi ai mitici anni sessanta, ai Beatles, e si torna veloci alla spensieratezza dolce amara di quando si era adolescenti. Alex Turner è la rockstar, è il piccolo e timido ragazzetto che si è fatto uomo, l'insicuro diciottenne che ora, a ventisette anni, sa di avere le doti necessarie per scalare la montagna e raggiungere chi, in passato, ha fatto della propria musica una fonte d'ispirazione. Gli Arctic Monkeys non inventano nulla di nuovo, sia chiaro, non saranno mai dei rivoluzionari. Saranno solo (e non è poco) quelli che sono riusciti in pochi anni a trovare la propria strada, a sentirsi comodi e soddisfatti del proprio stile musicale. AM è un album riuscitissimo, il più riuscito tra i cinque dischi finora incisi. Il più a fuoco, come la loro fotografia su un vecchio pick up sullo sfondo del deserto del Mojave che campeggia in prima pagina di alcune delle riviste musicali più vendute al mondo. In "Knee Socks" appare anche Josh Homme, l'uomo che ha creduto in questi quattro ragazzi inglesi e li ha fatti arrivare in alto, dove sono ora.
Non so se dietro a questa scalata al successo degli Arctic Monkeys ci sia più furbizia che umiltà, tappe bruciate troppo in fretta anziché gavetta e fatica. Il fatto evidente è che comunque AM è un disco che si fa ascoltare con piacere, dodici brani che non annoiano mai, che non puzzano di già sentito seppur siano ispirati ai grandi numi del passato. E a me questo basta per poter dire che sì, gli Arctic Monkeys ce l'hanno fatta anche questa volta.
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