Con “Tranquility Base Hotel & Casino”, ormai quattro anni fa, gli Arctic Monkeys hanno dato una clamorosa sterzata alla propria carriera, prendendo il toro per le corna e praticando una spericolata inversione a U che ha spaccato inevitabilmente critica e fanbase.
Se la prima è stata ben più clemente, i fan più integralisti della prima ora non hanno perdonato la “malefatta”. Ma d’altronde la grande arte è quasi sempre divisiva, come nella migliore tradizione, e questo Alex Turner lo sa. Qualche settimana prima della pubblicazione di questo nuovo “The Car”, il batterista Matt Helders è stato tranchant ed inequivocabile: “non sarà mai più come ‘R U Mine’”, ed infatti non lo è. Nonostante tutto, il frontman Alex Turner aveva provato di nuovo un approccio chitarristico alla scrittura (anche se diverso da quanto proposto nell’ormai fondamentale “AM”), ma sentiva che le canzoni “non volessero andare in quella direzione”.
Ecco che quindi Turner fa ritorno nel suo studio di Los Angeles, il Lunar Surface, e si mette a comporre utilizzando per metà piano e per metà chitarra acustica, salvando dalle sessions precedenti solo una prima versione di “Hello You”; solo quando avrà composto la parte strumentale di quello che poi sarà il primo singolo del disco, “There’d Better Be A Mirrorball”, capirà di essere arrivato alla quadra, e si trasferisce assieme alla band in un remoto castello del Suffolk per mettere insieme il tutto.
A quel punto si uniscono alla partita i fidati collaboratori di sempre: torna alle manopole il sodale James Ford, Tom Rowley dei Milburn co-firma due pezzi dell’album mentre Tyler Parkford dei Mini Mansion partecipa ai cori. Gli arrangiamenti orchestrali, parte fondamentale del nuovo corso, sono affidati a Bridget Samuels, già attiva in ambito cinematografico.
E così nasce questo “The Car”, sorta di evoluzione del precedente disco; stavolta niente fascinazioni sci-fi, come dichiarato dallo stesso Turner si torna sulla Terra ed il compito di aprire le danze è affidato proprio al singolo sopracitato, sorta di trait d’union con il lavoro precedente e le sue atmosfere soffuse e cadenzate. La prestazione vocale di Turner è (manco a dirlo) mastodontica, e mostra una raggiunta maturità che ha dell’incredibile. “Ain’t Quite Where I Think I Am” certifica il ritorno della tanto agognata chitarra, anche se non esattamente come richiesto a gran voce dai fans della prima ora: un wah-wah bello presente vena di funky tutto il brano, dando varietà e colore e introducendo l’ascoltatore al capolavoro del disco, la scurissima “Sculptures Of Anything Goes”, guidata da una partitura di sintetizzatore gentilmente concessa dal chitarrista della band Jamie Cook.
Il secondo singolo “Body Paint” è il brano più radiofonico, e l’unico ad essere dotato di un ritornello vero e proprio (c’è tanto McCartney in questo caso), oltre che di una chitarra ben presente in un finale pirotecnico ed impeccabile. E poi le fascinazioni morriconiane della titletrack, la deliziosa bossa di “Mr Schwartz”, l’afflato à la Scott Walker di “Jet Skis On The Moat” e “Big Ideas”, le orchestrazioni superlative dell’azzeccatissima chiusura “Perfect Sense”.
Nota a margine per la bellissima fotografia di copertina, scattata a Los Angeles e realizzata dal batterista Matt Helders utilizzando una Leica, nel tentativo di testare una vecchia lente da 90mm.
Brano migliore: Sculptures Of Anything Goes
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