Si poteva fare di meglio. Ma, soprattutto, si doveva fare. Si doveva fare perché anche lo spirito ha bisogno di soffrire di geloni per arrivare a decifrare molte situazioni. Si poteva fare meglio perché, chiaramente, questo disco sfocia nel personalismo più permeato da anni di gestazione in cui si sono sedimentati ascolti e pensieri rielaborati in maniera creativa e che si sono voluti raccontare per forza, in maniera egoista. Ma hai fatto bene, Divirgilio, hai fatto bene perché ce l'avevi da qualche parte negli organi interni questo disco, e da questi interstizi gli hai fatto fare tutto il percorso che porta alla luce di un mondo gelido, riempiendolo di tutti quei tasselli esperienziali necessari a proclamare il tuo io.

E' un caso particolare questo ascolto. Credo non possa lasciare totalmente indifferenti. Seppur non delizia per incudini e martelli avidi di novità misantrope, c'è un'impronta così netta, c'è una passione per la propria arte che sembra essere cesellato da un maestro italiano del marmo di epoche antiche. Suona italiano questo monolite post-rock che ha qualcosa di shoegaze negli intenti più che nella forma. Suona pieno di passione, suona di dramma interiore romanzato all'italica maniera. Suona per le mie orecchie e assume i connotati di un epicentro fermo e calmo attorno a cui tutto viene mosso da forze  sotterranee che amano restare occulte facendo sobbalzare le apparenze. E' un distacco pieno d'amore per la musica, per la chitarra, e pieno d'amore costretto ad un gelido esilio tra domande senza risposte.

E' un disco saturo di melodie che, mentre claudicano in volo, sanno ben raffermarsi quando si appendono al suolo, dimostrando una certa dimestichezza con territori musicali e geografici ben simili a quelli islandesi. Ma non pensate alla levità dei Sigur Ros. On A Sad Sunny Day conosce le acredini e le oscurità del metal, oltre che i cacofonici e dilatati silenzi nordeuropei e ad entrambi rende qualcosa: al primo, le deboli ma pittoresche parti parlate (in un caso addirittura in quel tipico scream anni '90 dei dischi gothic metal nostrani), ai secondi uno spirito  internazionale di frontiera. Il lavoro resta così sospeso in uno stile personale dalla grande enfasi poetica e con confini ben definiti entro i quali Divirgilio & C. danno magnificente testimonianza di sè.

Non è un album esattamente shoegaze (c'è un brano che vuol smentirmi e che s'intitola Iceberg Shoegaze) perché è una musica che ha limiti (non caratteriali) e un raggio d'azione ben definito. Non ci sono troppi controni sfumati o tratti vaporosi. C'è, invece, un gran lavoro d'ibridazione tra i Novembre e i Mogwai, per intenderci, che da un lato manifesta solidità e concretezza nel suono e dall'altro rende cosmici i dolori. Il difetto è che c'è troppo sentimento dentro, troppa urgenza di dover dire tutto per cui alle volte sembra che ci sia una confusione non sempre tenuta a bada in questa foga espressiva. Ma ciò non costa troppo nel giudizio all'album. Chapeau, direbbe Fursy Teyssier, estimatore della band romana e leader dei Les Discrets. Mica poco.

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