Questa recensione è dedicata ad un album incredibile, difficile da descrivere con delle semplici parole (l’aforisma zappiano “scrivere di musica è come ballare di architettura”, in questo caso, assume maggior peso). I vocaboli risultano assai limitanti per esporre l’ambizione del progetto e per narrare la Musica composta e diffusa da quel sestetto leggendario noto come “Area International POPular Group”, costituito dagli altrettanto leggendari Stratos, Fariselli, Capiozzo, Djivas, Tofani, Busnello. L’album di cui sto parlando, ovviamente, è “Arbeit Macht Frei” (1973).
"Arbeit Macht Frei" oggi sarebbe totalmente, e sottolineo totalmente, fuori dagli schemi retorici del cosiddetto "politically correct", ormai tanto in voga nell’epoca contemporanea. È un disco che fa della provocazione dirompente, iconoclasta, feroce la sua essenza. C'è provocazione ovunque, non solo nel titolo ma anche nei testi, nella musica, nel modo di porsi, nei comportamenti, nell'estetica. Un lavoro nato da un progetto che abbracciava l’arte in maniera totale, prevedendo l'immersione dell'artista e della sua artisticità nella vita di tutti i giorni dando vita, così, ad una sorta di arte militante, attiva (teoria figlia della corrente filosofica-sociologica-artistica "situazionista"). Questo era il piano, condiviso e messo in pratica dall’intera band, del "settimo" componente degli Area, l'eclettico Gianni Sassi, geniale demiurgo/ideologo del complesso. Non poteva essere altrimenti visto che tutti i membri degli Area, compreso Sassi, erano figli di quei terribili/movimentati/fantastici/iconici anni 60/70; in quella Milano, luogo in cui il gruppo mosse i suoi primi passi, c'era un fermento culturale e un attivismo incredibile che contribuirono inevitabilmente alla loro formazione: l'atmosfera di agitazione, le proteste radicali, la controcultura, l'identità operaista, la borghesia, gli anni di piombo, le manifestazioni politiche ed operaie, il movimento studentesco…
Gli Area non volevano essere da meno, volevano essere parte di quel fermento, volevano agitare gli animi e già con il titolo dell'album misero le cose in chiaro.
Il titolo "Arbeit Macht Frei", infatti, è frutto di una duplice provocazione: la prima, naturalmente, prende origine dalla frase presente sui cancelli dei campi di concentramento nazisti, "il lavoro rende liberi", e ne va a confutare il concetto, rendendolo attuale. Il messaggio da propugnare è il seguente: concepire l'idea di lavoro non come fonte di libertà ma come trappola della società moderna che ci vuole inquadrati e ben disposti a compiere il nostro dovere mettendo a tacere il cervello. La seconda provocazione, invece, è rivolta proprio al popolo ebraico, vittima della carneficina tedesca. Facendo riferimento alla questione mediorientale/palestinese (nella prima traccia dell’album il riferimento è palese), gli Area vanno a condannare lo stesso popolo ebraico reo di aver perpetrato, in egual modo, gli efferati crimini del modello nazista.
Dopo aver subito la provocazione del titolo, si passa alla riflessione indotta dai testi. I testi degli Area erano sempre frutto di un lungo lavoro di preparazione e studio. Le liriche risultano sempre estremamente efficaci, molto complesse e sofisticate, ma con un messaggio e una direzione ben precisi. C’è la volontà di risvegliare le coscienze assopite, di prendere atto della realtà e dei processi in corso, un invito a prendere parte con consapevolezza (parola molto cara a Sassi) alla demolizione del vecchio e alla costruzione del nuovo. L’attenzione viene focalizzata sulle lotte studentesche e degli operai, sulla problematica del lavoro, sull’alienazione dell’individuo, sul terrorismo, sulla politica, sul quadro internazionale e sulle problematiche esistenziali. Il messaggio, però, non è veicolato solo attraverso i testi delle canzoni ma anche attraverso la musica, componente essenziale del progetto.
Abbracciando la natura del free jazz, con la sua forza di rottura, di frantumazione delle strutture prestabilite, figlia delle correnti ideologiche dei neri d'America (Black Power/Black Panter), gli Area riuscirono a costruire un'identità musicale variopinta ed eclettica, con la stessa forza iconoclasta e dirompente del titolo e dei testi.
Free jazz, musica etnica, balcanica, mediorientale, rock, elettronica, popolare (di matrice greca), tutto questo confluito in 6 brani suonati in maniera strabiliante. Un sound meticcio dove l’iconoclastia, il virtuosismo e la complessità del free jazz si sposano con temi più immediati ed orecchiabili che prendono forma dal rock e dalla musica popolare/etnica. Un risultato sonoro difficile da descrivere a parole ma che trova un formidabile equilibrio tra improvvisazione e composizione, qualità che sarà uno dei punti di forza della musica degli Area. E poi c'è la voce di Stratos, tema non trascurabile. A quanto pare all’inizio anche il grande Demetrio Stratos (che aveva radici nel soul, nel blues e nel rock) ebbe delle difficoltà di inserimento in quanto il gruppo era più vocato alla musica strumentale. Tuttavia il suo talento gli permise di emergere anche in queste condizioni come musicista tout court, sviluppando quel concetto di “voce come strumento” che, con il tempo, lo consegnò alla gloria internazionale.
L’universo Area è circondato tuttora da un alone di complessità che lo rende, allo stesso tempo, magnifico ed affascinante. Però, forse, aveva ragione Zappa, parlare degli Area è un po' come ballare di architettura.
Dunque, è ora di finirla con le parole.
È arrivato il momento di ascoltare.
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