Il ruolo di cantante degli Arena non è per sempre, anzi ha una durata ben definita: tre album. O perlomeno così sembra, finora è stato così, nessun cantante ha registrato più di tre album con gli Arena, di questo passo verrebbe da pensare che sarà così anche per Damian Wilson. Proprio così, Damian Wilson è il nuovo cantante degli Arena e fa il suo esordio in questo decimo album “The Theory of Molecular Inheritance”; inutile dire che le orecchie erano puntate su di lui. Quando è stato scelto ho pensato che fosse assolutamente adatto per il sound degli Arena. A dire il vero però il mio rapporto con lui non è stato sempre di amore, per diverso tempo non sono stato amante della sua voce, tuttora non è fra i miei vocalist preferiti ma col tempo ho imparato ad apprezzare il suo inconfondibile timbro. La sua voce è assai forte, potente ma elegante, mai graffiante ed aggressiva, è un cantante piuttosto lirico e probabilmente non molto adatto a cantare il metal, sarà per questo che ho sempre avuto qualche dubbio su di lui dopo averlo sentito cantare nei dischi incisi con i Threshold (4 per l’esattezza) o nelle sue partecipazioni ai progetti Ayreon e Star One; ma la sensazione che il suo potenziale sarebbe venuto fuori meglio in una band melodica ed intensa c’era eccome.

Beh, effettivamente si avverte proprio l’impressione che questo nuovo lavoro degli Arena sia scritto proprio in funzione della voce. Prima però meglio fare un breve resoconto su cosa sono stati finora gli Arena. Proprio brevissimo, nei primi tre album sono stati una band di neo-prog melodico e sognante, forse già un po’ oscuro ma romantico nelle sue radici, poi però l’ingresso nel nuovo millennio li ha nettamente spostati verso un prog dai suoni oscuri e anche un pochino duri senza tuttavia mai toccare il prog-metal; personalmente li considero il principale esempio di “dark neo-prog”. In questo decimo album l’impronta oscura di fondo rimane ed è tangibile ma è più moderata rispetto ai lavori passati; probabilmente non recupera le atmosfere dei primi album ma qualche cenno di luminosità in più lo si scorge. Anche le chitarre ruggiscono un po’ meno, sempre che abbiano mai davvero ruggito.

Quello che ho notato è l’atmosfera complessivamente molto rilassata seppur angosciosa, i ritmi sono spesso tenui, i brani hanno parti lentissime e cullanti che con lo scorrere del minutaggio lasciano poi spazio a parti invece imponenti e lampanti, tutto suona come una sorta di emozione repressa che poi viene scaricata; ma non sembra trattarsi di rabbia, le parti più forti non sono mai urlate e le chitarre restano al loro posto, sono più le tastiere a sparare luci accecanti; probabilmente si tratta di energia positiva ed è come se si cercasse il momento giusto per tirarla fuori o come se il protagonista fosse troppo timido o impaurito ma poi si sciogliesse, è come trovarsi sul bordo di una piscina ed aver paura dell’acqua troppo fredda o troppo profonda.

Altra caratteristica che mi è saltata all’orecchio è una generale semplicità delle composizioni. Si cerca in gran parte delle composizioni di evitare i passaggi significativamente elaborati e si punta a soluzioni di poche note ben scandite, la band si dimostra abilissima a creare con poche note di tastiera o di chitarra una melodia sostanziosa ed esaustiva, a concentrare il tutto in quel poco, spesso si ripetono quei piccoli passaggi e non ci si accorge di quanto siano invece davvero grandi e ricchi; è comunque possibile imbattersi nel lungo assolo di chitarra o di tastiera, quello proprio esteso senza limiti, il brano “Integration” è lì a dimostrarlo, si colloca proprio all’opposto di tutto il resto.

E alla luce di tutto ciò perché abbiamo parlato così tanto di Damian Wilson? Alla luce di cosa affermiamo che l’album sembra scritto apposta per lui? Beh, in questo album è lui il vero virtuoso, quello che spazia, quello che gioca con la voce, teatrale e malleabile nelle parti più lente e invece potente e lirica nelle parti più forti. Se gli altri strumentisti quasi si astengono dal mostrare il loro estro lui invece lo fa, seppur con moderazione, gli concedono il centro della scena e lui se la prende ben volentieri senza tuttavia assolutamente oscurare il lavoro dei suoi compagni.

Che dire, una sorpresa mica male, considerando che si tratta di una band che benomale ha sempre mantenuto il proprio stile una volta consolidato, davvero non mi sarei aspettato di avere tanto da scrivere su questo lavoro. Un disco fedele ma fresco allo stesso tempo.

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