“Questa è una canzone che mi è stata rubata da una ragazza”.

Otis Redding 1967, sei mesi prima di precipitare nel lago Monona.

A 25 anni Aretha Franklin entrò in studio per incidere il suo nono album. Fino a quel momento la carriera non decollava, sì la voce era perfetta, il sound quasi … Mancava qualcosa ma non capiva cosa. Mentre la band accorda gli strumenti e si prepara, Aretha rilesse attentamente il testo di un brano di Otis, nel quale chiedeva rispetto alla sua donna.

Si blocca, alza lo sguardo. In quel momento Aretha capì. No, tu uomo mi devi rispetto, io voglio lottare per i miei diritti. Io ed altri milioni di donne unite apporteremo dei cambiamenti. Tu mi devi RESPECT! Aretha cantò, cantò come mai aveva fatto prima, cantò la sua rabbia data da secoli di sottomissione, cantò la sua libertà, con pathos e con la sua femminilità di donna nera, cantò davanti a milioni di donne soggiogate ed oppresse, come se stesse leggendo la dichiarazione dei diritti della donna. Cantò appropriandosi del brano stravolgendolo usando il suo cuore e l’anima di tutte le donne che proveranno – ascoltandola – quello che ha provato lei mentre la registrava. Cantò quella canzone scrivendo il primo manifesto femminista della storia.

Nella rilettura di Aretha i ruoli vengono invertiti, la protagonista è una donna, non più l’uomo cantato da Otis. Respect divenne in breve l’inno di quegli anni di sconvolgimenti sociali, e la sacrosanta richiesta di rispetto da parte di una donna per troppo tempo relegata ai margini si allarga, comprendendo tutti i settori di una società in movimento, dai diritti dei lavoratori, alle residue forme di apartheid, alle rivolte studentesche. L’intera società americana stava chiedendo rispetto, e lo faceva tramite la splendida voce di Aretha.

Parigi, 7 maggio 1968. La serata inizia con un atto di coraggio, trasformare il più grande inno rock dell’epoca, (i can’t get no) Satisfaction, in un brano soul, mantenendo intatto il phatos e renderlo migliore dell’originale. Secondo il mio modesto parere con tale voce Aretha non poteva certo sbagliare. Soul serenade, Baby I love you, You never loved a man … Tutti fantastici, ma gli ultimi due sono da brividi, Chain of fools e Respect. Questo brano e meno “rabbioso” della versione in studio, più scanzonato e leggero, come se Arteha fosse già soddisfatta di come il suo messaggio sia stato compreso, per cui non esagera e propone una versione più leggera ma sempre efficace. La voce fa da padrona, i brividi scorrono in una magica serata. Dopo tre giorni nel quartiere latino a Parigi studenti ed operai erigono barricate, è solo un caso?

Mmm non mi sembra male, forse banalotto ma ci sta. Sicuramente “lei” lo avrebbe scritto meglio.

Lo so, non ho approfondito tutti i brani qui presenti, non ho scritto che Aretha si appropria di tutte le cover facendole sue; che dal 1965 al 1972 non sbaglia nulla, che questo disco è considerato dai più il perfetto live soul (anche se all’Apollo Theatre qualcuno dissente), che è ancora oggi attualissimo e meglio di qualsiasi lavoro nu- soul, modern – soul, o sticazzi – soul mai uscito … Ma chissenefrega!

Ascoltandolo mi scende una lacrima, l’asciugo velocemente e vado a preparare la cena per i nipotini (figli di mia sorella), sfoggiando il mio migliore sorriso e cercando di accarezzare quella massa di capelli che a 20 anni porti con disinvoltura ed alla mia età la rimpiangi. Nel frattempo apparecchiamo la tavola, lo stereo continua a deliziarci con Soul Serenade, mimiamo a turno la canzone passandoci il cucchiaio, pardon, il microfono, facendo facce buffe ed urletti molto soul…

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