Art Blakey quando pubblica nel 1958 "Holiday For Skins vol.1" ha già alle spalle parecchi anni di gavetta e da qualche hanno ha intrapreso con discreto successo una carriera solista. Ma più verosimilmente è riconosciuto dal grande pubblico come membro co-fondatore poi band leader e unica presenza fissa dei Jazz Messengers, longevissimo gruppo che l'anno successivo lancerà sul mercato il celebre "Moanin".

La discografia del batterista è a questo punto già ampia a tal punto che può permettersi di pubblicare un album, che in realtà è un doppio album uscito in due pezzi, personale e perché no anche piuttosto originale. L'idea di fondo è piuttosto semplice:
Riunire alcuni batteristi e percussionisti capaci e di fiducia (oltre allo stesso frontman ci sono Art Taylor e Philly Joe Jones alle batterie "aggiuntive", Ray Barretto e Sabu Martinez a congas e bongos più altri cinque divisi tra maracas timbales e altre percussioni), aggiungere al mix tromba (Donald Byrd), piano (Ray Bryant), basso (Wendell Marshall) e canti tribali; al fine di mettere in pratica quanto il nostro ha appreso dai suoi recenti viaggi in Africa miscelandolo con le tradizioni musicali latinoamericane e quelle jazz.
Il risultato è un progetto dove il ritmo non è solo evidente ma proprio elemento centrale, il motore che trascina e incolla ogni elemento dall'inizio alla fine.
Gli strumenti non percussivi passano a fare da contorno alla vera carne, ad abbellire qua e là, a suggerire una melodia per aprire e chiudere ogni brano. Anche laddove questi interventi sono leggermente più sviluppati, come la traccia conclusiva "Mirage", essi vengono interrotti da lunghissimi assoli dei tre batteristi che rubano velocemente e impietosamente il palcoscenico e ristabiliscono la primordialità del sound.

Passiamo quindi a dare un'occhiata alle percussioni. Prima di tutto va detto che visto l'anno di uscita non ci si può aspettare che l'Africa qui rappresentata sia la simile a quella elettrica e oscura di molta roba fusion successiva. Qui troverete piuchealtro quei ritmi che rimandano alle tradizioni nere e meticce, non particolarmente rielaborati ma certamente adattati al pubblico statunitense. Che questo però non venga interpretato come tentativo di realizzare arte venale solo per incassare qualcosa.
L'esperienza e la capacità dei membri della formazione restituisce davvero all'ascoltatore riuscite atmosfere di giungle e danze intorno al fuoco, di urla e invocazioni, di festa e caccia, attraverso ritmi ostinati ma che incorporano diverse piccole modulazioni, mutando e amalgamandosi per poi esplodere e raccogliersi di nuovo verso il finale. Le tracce infatti seguono tutte circa lo stesso modello di base dove un coro di voci introduce con una nenia il tema e poi successivamente arrivano le sferzate vere e proprie. Quando i tre protagonisti prendono la parola pestano sui loro kit abbastanza violentemente. Non ci sono veri salti acrobatici né momenti squisitamente spettacolari, ma si distingue una buona inventiva e precisione nei gesti.
Anche se non è dato sapere quale musicista ha suonato un determinato passaggio è possibile riconoscere lo stile di ciascuno durante i pezzi, apprezzarne l'interpretazione personale e la capacità di interazione con gli altri musicisti.

Le dinamiche e i colori di questo album sono ciò che me lo fanno consigliare, soprattutto agli amanti delle membrane percosse ma più in generale a chi avesse voglia di approfondire un'uscita minore ma ben realizzata di una figura centrale nel mondo della batteria quale è stato Art Blakey.
Anche perché il disco si sente piuttosto bene, il suono è cristallino e molto rotondo, merito del caro Rudy Van Gelder.
Se dovessi scegliere due brani, e ben chiaro questo è quello che sto proprio per fare, azzarderei "Lamento Africano" e "Mirage".

Ma questo è solo il volume 1, ricordate? Dopo aver preso un bel respiro profondo ci si può gettare nell'altra metà e completare il percorso, danzando un po' e mimando le congas per quasi tutto il tempo.

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