Ci sono film nella storia del cinema che la maggior parte del pubblico non guarderà mai, perchè o troppo "vecchi" o addirittura sconosciuti, spesso anche a chi si dice "amante" della settima arte. "Il piccolo grande uomo" è uno di questi: nonostante due attori già molto famosi come Dustin Hoffman e Faye Dunaway e un regista che aveva imposto il suo nome dirigendo opere come "La caccia" e "Gangster story", questa pellicola del 1970 rimane ancora un qualcosa di sconosciuto per tanti, troppi. Il motivo è presto detto: "Little Big Man" è un western (genere non poi amatissimo dalle platee) e per di più è un western atipico.
Siamo nel 1970 e inaspettatamente vengono lanciati tre film incentrati sulla lotta indiani/bianchi con il punto di vista focalizzato dalla parte degli sconfitti pellerossa: il lungometraggio di Penn, "Soldato blu" di Ralph Nelson e "Un uomo chiamato Cavallo" di Elliot Silverstein. È la rivoluzione del western che scavalca gli anni '70, prorompendo con uno sguardo innovativo che si inserisce a piene mani nel fermento autoriale della New Hollywood.
Arthur Penn prende spunto dall'omonimo romanzo di Thomas Berger e porta sullo schermo l'epopea di Jack Crabb (Dustin Hoffman) che fin da piccolo è costretto a vivere tra gli indiani dopo un attacco alla sua famiglia. Viene accolto da "Cotenna di bisonte" (uno straordinario Chief Dan George) come un figlio, per poi iniziare una lunga peregrinazione: scampa alla morte per mano dei bianchi e viene allevato dalla signora Pendrake (Faye Dunaway) prima di finire a fare l'assistente di un ciarlatano, per poi incontrare di nuovo la sorella che con lui aveva vissuto con gli indiani, diventando pisotelero provetto. Successivamente sposa una donna svedese che viene poi rapita dagli indiani stessi da cui lui tornerà per trovarla. E poi avanti e indietro nell'esercito americano al comando del generale Custer e non certo per aiutarlo nelle sue manie di massacro dei nativi.
Bastano questi pochi accenni al plot per comprendere come il film di Penn non sia il classico western in cui si attende l'evento cardine della vicenda, come invece accade in "Mezzogiorno di fuoco" o "Un dollaro d'onore", tanto per citare due opere fondamentali e conosciute. L'andirivieni di situazioni che Jack vive è frutto dell'idea del cineasta: mostrare la diversità di vedute e di approccio alla vita tra i nativi, visti dalla società del tempo come i nemici, e la società degli oppressori bianchi. Uno sguardo sociologico che non disdegna inserzioni comiche, ma che allo stesso tempo ha l'obiettivo primario di raccontare il paradosso di un modo di vita, quello indiano, più tollerante se paragonato al "mondo civilizzato": non solo gli stranieri bianchi sono accettati in seno alla comunità con più naturalezza di quanto non avrebbero fatto i "bianchi", ma anche la presenza di un omosessuale tenuto in grande considerazione è il segno di una società che poteva sembrare primitiva agli occhi di chi guardava dall'esterno e che invece era più aperta e "cosmopolita" del razzismo americano, ben rappresentato dalla schizzoide figura del generale Custer.
Arthur Penn aveva esordito al cinema con un western ("Furia selvaggia", 1958) totalmente diverso e classico rispetto a "Il piccolo grande uomo". Se in quel caso raccontava la storia di uno dei tanti nomi leggendari del west, quì ribalta gli schemi e le convenzioni, come aveva già fatto per il dramma e il biopic e come farà successivamente per il noir. Penn non è mai stato un autore da grande pubblico, sebbene abbia spesso lavorato con nomi attoriali giganti. In "Little Big Man" non vuole soltanto riabilitare quel mondo che i suoi connazionali avevano contribuito ad eliminare quasi del tutto, ma continua anche un processo di racconto dell'America alienata e contraddittoria nel duro passaggio dai '60 ai '70, quando ormai il paese aveva la sensazione che il Vietnam non solo avrebbe significato la parola sconfitta, ma anche una ferita che gli altezzosi americani si sarebbero portati dietro per almeno un decennio. Il Vietnam come Little Big Horn.
A quasi cinquant'anni dalla sua uscita, "Il piccolo grande uomo" rimane un film memorabile e iconico di un mondo ormai in dissolvimento. Il lunghissimo flashback con cui Jack Grabb racconta la sua storia è il sintomo di un mondo perduto che ormai vive solo nelle memorie degli uomini. Dice il vero chi sostiene che nelle scene action il film appare ormai datato, ma è un difetto che i vecchi film condividono insieme a causa delle attrezzature tecniche che rendevano complicatissimo girare una scena come quella finale (la battaglia del Little Big Horn). Segni del tempo che non scalfiscono la potenza narrativa e nostalgica di un film che ha ridisegnato la storia del western e donato un pizzico di giustizia a chi è stato massacrato in nome dell'espansionismo dei "civilizzatori".
"Più una cosa è viva, più i bianchi fanno di tutto per distruggerla. È questa la differenza".
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