Siamo alla fine degli anni ’80 e i danesi Artillery sono ad un passo dallo scioglimento. I due dischi precedenti (“Fear Of Tomorrow” dell’85 e “Terror Squad” dell’87: ottimi esempi di speed/thrash europeo anni ‘80) sono stati quanto di più vicino ad un fiasco si potesse immaginare.

La rottura con la Neat Records è stata inevitabile: l’umiliazione di doversi disegnare di proprio pugno (!) la copertina di “Terror Squad” (oscena…) è stata solo la punta dell’iceberg. Dietro ci sono la necessità di organizzarsi da soli i tour (storici quelli con Slayer e Tankard) per cercare di mettere una pezza alle mancanze della label, l’inconsistenza dei budget per la produzione, le ingerenze ingiustificate e l’attività promozionale inesistente. Senza contare il disastroso tour in Russia (!) con i Next Stop e i SortSol, conclusosi anzitempo con una rissa imperiale tra pubblico e forze dell’ordine e i nostri rispediti a casa su di un treno merci. Durata del viaggio (che, tra l’altro, avrebbe ispirato l’intro “7:00 From Tashkent”): cinque giorni di scazzi, litigi e bestemmie. Tanto che, appena rientrato in patria, Jørgen Landau, primo chitarrista e membro fondatore, lascia per sempre la band.

Fortunatamente, però, gli anni che hanno preceduto l’uscita di “By Inheritance” non hanno portato solo brutte notizie. Proprio in quegli anni, infatti, la band aveva stretto ottimi rapporti con alcuni personaggi chiave della scena internazionale. Con i Metallica e i Destruction, in primis, ma, soprattutto, col sultano dei produttori: Flemming Rasmussen. E proprio grazie ad un demo registrato dallo stesso Rasmussen agli Sweet Silence Studios, i nostri trovano la via per uscire dal tunnel: un contratto con la Roadracer per la quale pubblicheranno, finalmente, il qui recensito capolavoro. “By Inheritance” (’89), va detto, risulta nettamente differente (e, a mio avviso, superiore) a quanto fatto in precedenza dalla band, frutto di un’evoluzione tecnica e compositiva costante nel corso degli anni, che conduce a lasciare in secondo piano l’intransigenza di alcune soluzioni del passato, per sposare una formula magari meno aggressiva e di difficile catalogazione, ma decisamente più ricca e più varia.

Lo speed/thrash aggressivo degli esordi non viene del tutto abbandonato, bensì, molto più efficacemente, arricchito di componenti eterogenee, provenienti da generi, stili e ”tradizioni” diverse (da notarsi, in particolare, un uso intelligente e mai eccessivo della minore armonica). I fratelli Stützer (Morten e Michael, diventati col tempo i principali compositori del combo), in particolare, tessono trame chitarristiche davvero pregevoli, forse non mirabolanti e funamboliche quanto quelle di altre produzioni dell’epoca, ma ricche di spunti, originali ed efficacissime per groove e “tiro”. È lo stesso songwriting, lo stesso approccio compositivo ad essere sensibilmente cambiato: l’intrinseca esigenza di aggressività tipica del genere si sposa, perfettamente, con una costante ricerca di melodie mai banali, di soluzioni raffinate e arrangiamenti complessi. Ciò, se può far storcere il naso a qualche purista, inevitabilmente arricchisce il sound e la stessa proposta musicale della band, facendola virare più verso un power-heavy classico talora decisamente aggressivo, piuttosto che ad un vero e proprio thrash (che, anche qualora lo si volesse considerare tale, sarebbe comunque piuttosto lontano dai canoni europei, accostandosi maggiormente alla scuola d’oltreoceano).

Non mancano, certo, gli episodi più tirati, più “tradizionali” (sentasi, ad esempio, l’opener “Khomaniac”, tra i brani migliori del disco o “Life In Bondage”, probabilmente quello più aggressivo), ma ad essere mutato è il quadro generale: complesso, articolato, decisamente impegnativo dal punto di vista tecnico, reso, se possibile, ancora più ricco da stacchi acustici, arpeggi, e soventi armonizzazioni. Addirittura lo stesso Flemming Rønsdorf si rivela cantante nettamente più versatile, in grado di affrontare degnamente anche gli episodi più melodici (su tutte “Don’t Believe” – spiazzante semi-power-ballad!), fondati talora su un cantato misurato, pulito, privo degli eccessi più sguaiati e aggressivi dei lavori precedenti (fino ad arrivare quasi a ricordare Robert Plant – oltre che, ovviamente, Dan McCafferty - nella iperanabolizzata cover di “Razamanaz” dei Nazareth). Un cantato decisamente più sentito ed emozionale, in grado di sfoggiare, qualora occorra, persino una sfumatura di epicità, o, ancora, disposto a episodi particolarmente catchy (come nel ritornello della title track). Inutile dire che, anche questa volta, gli Artillery non ottennero il successo sperato. Anche la Roadracer si rivelò etichetta inaffidabile e per nulla disposta ad investire sulla band danese.

Le ingiuste vendite del disco e la profonda crisi che investì tutto il genere thrash all’inizio degli anni ’90 fecero il resto. Di li a pochi mesi, il gruppo si sciolse e le strade dei vari componenti si divisero: i fratelli Stützer andarono a costituire l’ossature dei Missing Ling, mentre Rønsdorf, si narra, venne ingaggiato in una cover band dei Beatles…

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