Vi sentite tiepidamente allegri, o peggio? Nel caso oggi foste più propensi alla seconda delle due opzioni è meglio che dimentichiate questo suggerimento cinematografico; o che almeno lo accantoniate. Meglio chiuderlo per un periodo indefinito da qualche parte; come lo chiama il bravo risotto serale con la bella cravatta? Cassetto della memoria! Sì, direi che lì può andare bene.

Sono 5 minuti, e 300 secondi mica sono pochi, che cerco l’aggettivo giusto ed alla fin fine forse quello che meglio lo descrive è forte. Bella presa per il culo. Forte come quel rum, il primo superalcolico, che mi sono bevuto e poi rigorosamente vomitato 3 ore dopo. Al mare, sulla battigia. Dio, in tre sorsi al sapore di pirata ero convinto di essermi trasformato in James Dean. Non lo ero. Mi sentivo bene anche ieri: appollaiato tra due silenti armadi a muro nella corta fila in attesa della cassa per il cartoncino numerato. B5. Ma una volta alzato dal sedile, con i titoli di coda senza colonna sonora, mi sono ritrovato per terra sanguinante in un ring di Las Vegas: ma sì, facciamo che sia il Bellagio. Nove e … dieci!! Una di quelle carcasse umane che venivano date in pasto a Tyson per mezzo minuto al suo rientro. Insomma, picchia forte davvero questo film.

Potrebbe passare per un’opera d’accusa nei confronti dell’elettricità: quella indirizzata al cervello per riattivare e sgranchire i neuroni fiacchi, alle pastiglie messe sotto la lingua per il mal di testa molto forte, alle camicie un po’ strette sulle maniche per quetare mani ed animi troppo effervescenti. E sono j’accuse che graffiano, cazzo. Testate sul muro: sangue e piscio che cola sul pavimento. Spunti per ridere ce ne sono anche, ma hanno il sapore di un bicchiere da mezzo litro di Fernet Branca ghiacciato alle 7 del mattino.

Fendenti, rasoiate acute, brillanti, sarcastiche. Ma non sono per nulla sicuro che “La pecora nera” sia solo questo. L’altalena continua, l’incasinato e quasi ossessivo flashback temporale e spaziale, tra il bel condominio con i cancelli e con le porte sempre chiuse e l’aria aperta, vuole al contrario creare un ponte. Palesare come le apparentemente enormi differenze tra dentro e fuori non siano poi così macroscopiche come potrebbe sembrare di primo acchito. Perché è la società intera che sta decadendo ed impazzendo e Celestini ne fotografa la stupidità e l‘immoralità. Dai favolosi anni ’60 ad oggi.

Più che una voce fuori campo è un martello. Tra questo pesante arnese che si alza e l’incudine che attende con ferrea indifferenza, inizialmente ci stanno proprio i miei coglioni. Poi non lo so; sarà il masochismo oppure più semplicemente ci si abitua a tutto con il tempo: come all’aria mattutina ammazza mosche di una camera piena di adolescenti in un campeggio. Fatto sta che questa voce, volutamente monocorde e senza espressività alcuna, non ci lascia mai e tiene collegata come uno scotch poco adesivo infanzia e presente del protagonista. Filastrocche, nenie ripetute ossessivamente tra una scena e l’altra ed ottimi monologhi lunghi: ci sembra proprio di sentirlo scricchiolare il legno del palcoscenico.

E d’altro canto Celestini è da 2 anni che fa il vagabondo con questo omonimo spettacolo per mezza Italia. Ha pure scritto un libro. Dovrei leggerlo forse. Ma coniugare teatro e telecamera non è mica una cosa tanto semplice.

Un plauso quindi ad un’esordio particolare: un po' ripetitivo e scontato per trama, ma potente ed originale nello sviluppo disordinato. “La pecora nera” è recitato in modo impeccabile dal cast e qui un inchino, ed un mea culpa, lo devo fare per Tirabassi. L’avevo visto, il suo naso me lo ha fatto riconoscere, durante lo zapping fantozziano in alcune fiction di infimo livello. E così l‘avevo etichettato un cane. Mi ha stupito. Un po’ come quando vidi la “Stanza del figlio”. Più guardavo Kim Rossi Stuart e più tornava alla mente il “Ragazzo dal Kimono d’oro” e “Fantaghirò“. Nutella e peperoni.

3 piene, 4 leggermente acerbe.

ilfreddo

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