"Divum Pater" 

Una delle tante versioni della tradizione religiosa romana racconta che in tempi antichissimi, rigorosamente governati dal mito, Saturno, dopo essere stato detronizzato dal figlio Giove, fu costretto a rifugiarsi sulle inesplorate coste italiche, dove venne accolto da un misterioso Dio, assente nel pantheon greco ma superiore ad ogni sua personalità celeste, che rispondeva al nome di Giano (Ianus), essere bifronte, nume tutelare degli inizi (da cui il primo mese dell'anno "Gennaio") e dei passaggi ("ianuae" era infatti il termine con il quale si indicavano le porte). Questo potentissimo quanto morigerato personaggio concesse ospitalità al despota decaduto in cambio della sua conoscenza agricola, che avrebbe dovuto trasmettere alle genti del luogo, per rendere fertili e produttive quelle terre, le quali da quel momento in poi, offrendo asilo ad un fuggiasco ed occultandolo al vendicativo sguardo degli dèi, avrebbero assunto il nome di Latium (Lazio, forse derivato dal verbo làtere, cioè nascondere).

La simbologia che si cela dietro l'aspetto bicefalo del primo dei cosiddetti dèi "indigetes" (originari dell'area latina e non "importati" da culti stranieri preesistenti) ha una consistente connessione con l'ineluttabile scorrere del tempo e si rivela più che mai nell'usanza (non sempre adottata) di rappresentare Giano con due facce di età profondamente diversa: l'anteriore giovane e ideale, ad evocare il futuro e la chiaroveggenza della divinità, mentre la posteriore anziana e meditabonda, a testimonianza del passato ricco di esperienze e lezioni di cui far tesoro. Le due direzioni temporali coesistono perciò nella natura del dio, ma non si incontrano mai in un ipotetico presente, poiché gli eventi futuri, per quanto magari prevedibili, nel momento in cui si compiono diventano inesorabilmente passati, rendendo così impossibile la presenza di un volto intermedio che, agendo da diga, possa fissare l'istante in un presente costante ed immutabile, frenando il tumultuoso corso del fiume degli eventi.

In musica, e soprattutto in ambito prog, abbiamo numerosi esempi di autori che incarnano perfettamente questa doppia polarità, proponendo, a fasi alterne, lavori di stile estremamente divergente ed incompatibili fra loro; ma ben altra storia narra invece le gesta dei pochi teorici che hanno audacemente cercato, non senza numerosi tentativi, formule azzardate ed inevitabili passi falsi, di incrociare due punti estremi della stessa linea, generando un uroboro in cui gli antipodi convivono in un suggestivo quanto instabile equilibrio artistico. Un esponente di questo processo sperimentale è da ricercarsi nei tratti ben poco romani (tanto per rimanere in tema) del giapponese di scuola oldfieldiana Yoh Ohyama, il quale, dopo un approccio prettamente elettrico dominato dalle tastiere ("Circle in the Forest" dell'88 e "Brilliant Streams" del '90) ed una piccola quanto ben più recente parentesi totalmente acustica ("Bird Eyes View" del 2004), è riuscito a fondere le due anime della propria identità musicale (talmente differenti da essere conosciute con i nomi rispettivamente di "Electric Asturias" ed "Acoustic Asturias") in un connubio sognante e ricco di calde sfumature bucoliche che non disdegna, al momento opportuno, l'inserimento di elementi decisi ma ben dosati.

È perciò di "In Search of the Soul Trees" del 2008 che ci occuperemo in questa sede? Bèh... No. Per quanto le diverse esperienze dell'artista abbiano affinato il suo senso dell'equilibrio tra gusto compositivo di taglio moderno e amore per le sonorità classiche e sofisticate, il rovescio della medaglia di questo disco ibrido (procedendo sulla falsariga di "Cryptogram Illusion" del '93) rivela comunque una convivenza a tratti forzata di componenti che occasionalmente stridono nella loro sistemazione cosmopolita, desiderando possibilmente un ambiente più idoneo alla propria natura per potersi esprimere al meglio. Facciamo allora un passo indietro al 2006 ed avventuriamoci nei dedali neoclassici della seconda creatura dei cosiddetti Acoustic Asturias, nella quale alcune delle tracce presenti nei precedenti LP rinascono sotto una nuova luce, scaturita da un delicato amalgama di chitarra, pianoforte, archi e fiati: "Marching Grass on the Hill".

Il filo conduttore dell'album è cristallizzato in una costante e malcelata malinconia, un impeto trattenuto dalla saggezza che si snoda tra i canti tormentati del clarinetto di Tsutsui Kaori ("Wataridori"), appoggiato ora da un commosso pianoforte ("Marching Grass on the Hill"), ora dal ritmo vivido e smagliante della chitarra ("Waterfall"), per poi riversarsi sulle corde del violino di Ito Kyoko, il quale irradia impulsivamente un vortice dolce-amaro di affetto e rimorso tramite i suoi volteggi irrequieti, i pianti laceranti e le oscure e passionali danze gotiche ("Kami no Setsuri ni Idomu Mono Tachi", "Luminous Flower", "Bloodstained Roses"). L'afflizione del piano di Kawagoe Yoshihiro trova conforto nella purezza vocale di Itoh Kanako ("Benikoh"), alla quale attinge anche il clarinetto ("Woman of Ireland") dopo le meticolose e solenni opere di restauro, volute dalla chitarra del leader Yoh ("Rogus", "Adolescencia"), atte a sigillare questo semi-capolavoro acustico, appesantito soltanto da una certa gravosità, concentrata in un paio di episodi piuttosto peculiari, d'impronta evidentemente conservativa, che forse avrebbero avuto una fioritura più rigogliosa in un vaso di dimensioni lievemente ridotte ("Classic Medley", "Coral Reef").

Finisce qui un esame di coscienza, quasi una ricerca di sé stessi sfociante in una sommessa lotta con i propri ricordi che, paradossalmente, può avvenire soltanto nella solitudine e nella pace dell'introspezione; quella stessa pace duramente ottenuta che, in epoche ormai perdute, veniva celebrata dai romani sbarrando le due porte dell'enigmatico tempio di Giano, nella speranza che il dio riuscisse a mantenerla intatta e a custodirla all'interno dell'edificio a lui dedicato il più a lungo possibile.

Carico i commenti...  con calma