La mente umana è considerata da secoli e secoli come il meccanismo più complesso mai creato. Dopo millenni di scoperte, invenzioni e opere, il lavoro più sfaccettato, complicato e allo stesso tempo perfetto rimane il nostro cervello. Una macchina ben oliata, che difficilmente si inceppa o si blocca.

Ma a volte il cervello umano incontra delle difficoltà. Degli ostacoli insormontabili anche per esso; incontra dei fenomeni che non riesce a spiegare. Anni e anni di ricerche nelle più svariate scienze come la filosofia, la storia, la chimica, la biologia e quant'altro, impotenti di fronte all'inspiegabile. Ma l'uomo non rimane fermo a contemplare il suo fallimento, bensì cerca di stemperarlo, di "metterci una pezza", grazie ad una tattica semplice e allo stesso tempo infallibile: il simbolismo.

Tutti, chi più chi meno, ne hanno fatto uso; soprattutto in un sito come Debaser, che tratta nel modo più disparato dell'arte (musicale, cinematografica o di altro tipo). Capita quindi di imbattersi in un'opera di una tale, incredibile portata e magnificenza da non poter far altro che rimanere lì, impalati, a bocca aperta, incapaci di far altro che ammirare le note e le immagini elaborate nel nostro cervello. E come trattare a parole, come descrivere ciò che si è appena provato, se nemmeno noi riusciamo ad esprimerne il concetto universale? Con il simbolismo appunto, con il particolarismo di socratica memoria.

A me è capitato varie volte di trovarmi nella situazione descritta sopra: nel campo musicale, ci sono stati ad esempio "BE" dei Pain of Salvation, "Mellon Collie and The Infinite Sadness" degli Smashing Pumpkins, "Hemispheres" dei Rush, che mi hanno lasciato incapace di una descrizione. E allora cercavo di dare un'idea della grandezza di queste Opere relazionandole con concetti già conosciuti: la dolcezza dell'acqua che scorre, la potenza di una tempesta, l'elegante forza di un paesaggio innevato. Emozioni trasmesse attraverso immagini e suoni comuni, presenti nell'immaginario collettivo.

Cosa successe quindi quando ascoltai per la prima volta questo "Vaya", datato 1999? Dopo aver sentito questo EP in particolare, sommato poi alle sensazioni fornitemi dai precedenti lavori (e confermate dal successivo "Relationship of Command") riuscii per la prima volta a catalogare l'essenza degli At The Drive-In, quella loro essenza fino ad allora fugace ed evanescente. Quando ascolto questo gruppo, la prima immagine che mi viene in mente è questa: la Coca-Cola.

Corrosiva, come le chitarre taglienti di Jim Ward e Omar Rodriguez-Lopez; acida, come il basso sferzante di Paul Hinojos; da mal di testa, come la voce rabbiosa di Cedric Bixler-Zavala. Un composto all'apparenza mortale, o al limite maligno. Un acido di batteria dal gusto zuccherato.

Ma, ditemi: qualcuno si è mai lamentato del suo sapore? O forse non ci viene l'irrefrenabile voglia di berne ancora un sorso?

Questi sono gli At The Drive-In: acido e dolcificanti. Emicrania ed estasi. Croce e delizia. Bianco e nero. Bene e male.

Ne volete ancora un po'?

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