“And as I dreamed the lilies white in the shade of a birch…”
Questi sono i veri At the Gates. Mica quelli patinati a cui dobbiamo la colpa di avere oversaturato il mercato con tutti i loro fuchi svedesi, pescatori che fino a qualche anno fa facevano i pescatori ora imbracciano chitarre ribassate e ci propongono migliaia di Slaughter Of The Soul.
Questi sono gli At The Gates, e più precisamente questo è l'Adrian Erlandsson non solo capace delle due famigerate costruzioni ritmiche alla At The Gates: tupatupatupatupa o tututupatututututupatutututututupa ma ci propina simpatici terzinati o spiazzanti cambi di ritmo degni di un batterista che si rispetti.
Infine la musica, stupenda. Chiunque abbia già da tempo digerito i Dark Tranquillity dell’immenso Skydancer non farà fatica a riconoscere in questo With Fear I Kiss The Burning Darkness un tentativo di evoluzione che parte appunto dalle stupende armonie disegnate dai cinque svedesi ora decontestualizzate (mamma mia) e trapiantate su un impianto che rimanda agli Entombed dell’era Clandestine, alfieri dello Swedish death più pesante e aggressivo.
La maggior parte dei riff è in tremolo picking ma ci sono anche le prime avvisaglie di quelle ritmiche più thrash/death che appariranno poi in tutti gli album seguenti.
Le vocals del buon Lindberg sono molto molto diverse da quelle di Slaughteriana memoria, sguaiate, imperfette forse, più proprie di un Vikernes (o di un Fridèn Skydanceriano) qualsiasi, ma mai così adatte alle linee di chitarra ora malinconiche ora lievemente dissonanti ora epiche ma sempre originali, spiazzanti con un lieve retrogusto folk-melodico che ha fatto la fortuna del death svedese.
Col tempo gli At The Gates hanno purtroppo perso la complessità, anche dal punto di vista dei testi (tutto l’album sembra essere un concept sul naturale potere purificatrice dell’oscurità, e del fuoco del tramonto, si sa da tempo di quanto il buon Lindberg sia un simpatico ubriacone), e l’indisciplina tipica di un gruppo giovane e fresco in favore di una maturità vagamente più easy listening che li ha portati a diventare una delle band più influenti in ambito estremo, e a mio parere è un grande peccato.
In canzoni come Raped By The Light Of Christ dal testo allucinante, The Break Of Autumn col suo rifferama letteralmente impressionante, la lunghissima (per gli standard degli At The Gates) Primal Breath, Stardrowned, la stupenda The Burning Darkness, Ever-Opening Flowers, Through The Red, non c’è alcuna struttura predefinita, i riff appaiono e scompaiono all’improvviso come delle comparse non ben istruite sul da farsi ma il tutto funziona così bene che le canzoni fluiscono perfettamente anche senza un minimo di coerenza geometrica, come guidate dall’istinto.
Sicuramente non un capolavoro per tutti ma un disco che insieme a Skydancer e al già diverso The Jester Race è una delle testimonianze più valide e importanti del movimento svedese quando ancora muoveva i primi passi e non era così pacioccoso (vedi Colony giusto per fare un esempio).
“Jesus, no prince of my starved hell to be / No way, my world it dies with me”
Carico i commenti... con calma