Dal piovoso Northwest, più precisamente da Portland giungono folate di un vento gelido e desolante, di quello che ti scalfisce il volto e ti fa rimanere ben impressi i segni del suo passaggio. Delle raffiche che vedono negli Atriarch i principali mandanti. Che quello spiraglio di Stati Uniti si stia rivelando man mano che passano gli anni (se non decenni) un serbatoio incandescente di artisti interessanti non è un mistero. I nostri non fanno eccezione e con questo "An Unending Pathway", prima uscita su Relapse, vanno dritti al centro del bersaglio e lo colpiscono senza cedimenti e cincischii del caso. Son in quattro, ma loro stessi preferiscono identificarsi come un'unica entità che possa attraverso la musica aprire uno squarcio nel velo che ostruisce e acceca la reale visione di noi stessi, superando quella patina di superficialità per così addentrarsi oltre le ombre di mercificazione e massificazione. Oh, sta cosa la trovate sul loro Bandcamp, non pigliatevi troppo male.
L'oscura alchimia che pervade il full length e lo porta in una decadente dimensione è una di quelle che non può passare inosservata. Scorre fluida, senza rallentamenti e complicazioni superflue rendendo "An Unending Pathway" coeso e dilaniante. Non è un martellare al fulmicotone, tutt'altro. La pesantezza di arcigni riff dai rimandi sludge che portano alla mente i Neurosis più cerebrali o gli AmenRa confluiscono in un denso magma d'influenze sonore. A tratti si odono gli echi dell'incidere marziale industrial dei Killing Joke o la teatralità di soluzioni Dark Wave che abbracciano l'abrasione di distorsioni che si trascinano sempre più a sud, sempre più contorte e sempre più claustrofobiche. Si riesce però a trovare nel loro percorso lo spazio per sfociare in blast beat di derivazione black metal o in escalation caotiche, senza che queste rimangano sconnesse e fini a se stesse, ma pronte a rimarcare l'alone funereo e opprimente di ogni composizione. E' una catarsi che assorbe totalmente Lenny Smith (voce) autore di autentiche cantilene storte e luciferine alla Bauhaus o Joy Division in grado di trasformarsi in un batter di ciglia in strazianti grida ruvide e confuse, come se fossero sputate fuori alla rinfusa con l'autentica necessità di dover liberarsi da qualcosa in preda ad attimi di isteria e poca lucidità. Sinistri sussurri e soffuse atmosfere aggiungono alla tela musicale degli Atriarch la giusta connotazione psichedelica in cui è la notte più cupa a far da padrona. È la sensazione di un collasso imminente e in un tal senso inevitabile che nutre lo scrigno in cui è custodita la natura malvagia e apocalittica dell'anima pulsante del gruppo dell'Oregon.
C'è tempo per incamminarsi lentamente verso le proprie debolezze, rappresentate magnificamente da liquide melodie che si dipanano sinuose prima d'infrangersi sui rintocchi sepolcrali che Ronald Avila scandisce lì dietro le pelli. Il cuore doom chiude il cerchio in una disperazione non solo angosciante, ma che cerca di liberarsi dalle catene di percezioni ristrette. Poi ci sarebbe una spiritualità, un avvolgente leitmotiv dai tratti rituali e tribali che risale forte lungo la spina dorsale del platter, mostrandosi sotto la luna piena di una foresta labirintica. In definitiva il discorso musicale qui dentro funziona alla grande proprio perché gli Atriarch non si sono posti barriere dai lidi da cui attingere riuscendo così a concepir il tutto con il giusto equilibrio creando uno dei lavori top di questo autunno. Un vigoroso colpo di coda e ennesima uscita che pian piano fa risalire la Relapse ai vertici delle label indipendenti.
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