Atrium Carceri, per rinfrescarsi le palle nel tedio di serate afose d'estate, passeggiando su fetide ciabatte di gomma rovente, versando nel bicchiere di plastica la birra brodosa del discount.
Atrium Carceri, sì, tingimi le palle di nero, infestami la testa di rumori di merda. Atrium Carceri, un discorso di virgole e punti, senza parole né sintassi, solo parentesi, fugacemente aperte e chiuse, gli scricchiolii e le catene, gli sgocciolii e le porte che rimangono chiuse.
Cos'è il dark-ambient? Fusione a freddo delle palle, il Niente messo in musica, la musica che diviene esperienza, non-intrattenimento per masochisti in cerca d'amore, condanna per le palle e per le orecchie.
Ok, Raison D'être non si tocca, Raison D'être è Dio, ma non è detto che non vi sia altro. I pischelli certe volte tengono testa ai padri, ti fanno vedere la stessa cosa da altre prospettive.
Per rimanere credibili negli angusti confini del Niente bisogna saper suonare, avere il rigore di un inquisitore o dell'Incredibile Hulk, disfarsi di tutto quello che l'uomo ha inventato dall'età della pietra ad oggi; essere mezzadri e far fruttare un terreno di tre centimetri quadrati e tirare su querce secolari alte quanto il cielo; ed andare oltre, arrampicarsi come Topolino, Pippo e Paperino sulla corteccia e i rami del fagiolo magico, raggiungere l'Impossibile, farsi prendere a mazzate dai giganti, varcar porte colossali, inerpicarsi per scalini mastodontici, con dietro l'abisso e davanti le mazzate dei giganti.
Camminare rassegnati lungo il tetro corridoio di un carcere fatiscente: questo era "Cellblock". Battere la testa contro i muri bianchi di un manicomio: un simpatico scherzetto di nome "Seishinbyouin". Atrium Carceri passa in rassegna i luoghi della reclusione, procedendo progressivamente dal cemento alla mente, non elevando muri metafisici attorno a te, bensì perseguendo il percorso inverso, buttando cemento sulla tua mente.
"Ptahil": Atrium Carceri arriva a casa tua, getta colate d'asfalto sul cervello, sulla pelle e sulle palle. Reclusione del quotidiano. Cambiano le location, ma le pareti rimangono, solide, invalicabili, issate da quel buon manovale che è Simon Heath, isolato nel suo appartamento di New York ad assemblare il Niente, ad ergere con certosina devozione muraglie invalicabili che ti escludono dal mondo: calce, cemento, un impasto di rumorismo tenebroso che rinsalda pareti corrose dalla muffa e dal gelo, lo strisciare sinuoso, il frusciare incespicante di viscidi rettili sulla superficie ruvida.
La barriera informe di synthoni che vanno e vengono, una risacca di melma che riempie impercettibilmente i vuoti e che poi si ritira altrettanto lentamente, mentre il vetro infrangibile delle finestre trema ed è sull'orlo di spezzarsi.
I mattoni di un'elettronica minimale che pulsa arcana, a tratti grezza come la migliore tradizione industriale esige, a tratti inaspettatamente sofisticata, ai limiti del trip-hop, ai limiti di una certa elettronica d'autore. Il battito stancamente regolare di un cuore sull'orlo del collasso, un orologio implacabile che scandisce il silenzio e gli spazi angusti e claustrofobici di un locale sgocciolante ma saldo ed indistruttibile.
Loop infernali che ti fagocitano e ti stritolano le ossa. Poi le assenze. E qualche scivolone gotico che tutto sommato perdoniamo (del resto sempre di dark si parla), ma niente cori gregoriani, niente orchestrazioni da giorno del giudizio. Il verdetto, ahimè, è già stato emesso: punizione, reclusione, tedio eterno. Solo porte chiuse, uno strisciare nel buio, tastando disperatamente le pareti in cerca di uno spiraglio che non c'è.
Poi ti rassegni, ti adagi esausto sul freddo pavimento accidentato, e allora non ti resta che pensare, evadere con l'immaginazione, vagare per lidi ignoti, saggiando il sapore di epoche passate, civiltà morte e dimenticate, la speranza della reincarnazione perché in questo corpo proprio non ci si può più stare.
Ed allora, seppur per un istante, una voce femminile ti schiude nuovi mondi, spuntano fra le crepe della non-musica brani di pianoforte che manco co' o' cazzo ti aspetti, e ti fanno pensare: "Ma allora è musica quella che sto subendo!"
Ptahil, Ptahil, la mia mente è altrove, ma ben salda agli oggetti che mi circondano, uno squallido tavolino, un divano disfatto, le ciabatte di merda che ospitano pietosamente i miei piedi dalle unghie lunghe e sporche. Pavimento sudicio, macchie d'olio sul pavimento, reclusione del quotidiano, si diceva, il passo elefantesco di un'elettronica da ferramenta, martello sulle palle, balle di viti, chiodi e bulloni.
Bullonami le palle, fissamele alla parete, e mentre pendo a testa in giù, il mondo resta immobile, la prospettiva cambia ma non la mia vita, non la mia sedia, il mio tavolo, le pareti.
Testa capovolta e piena di sangue, il pulsare delle tempie ubriache di sangue. Una temibile discesa nei recessi dell'inconscio, una fuga disperata verso luoghi altri, mentre i droni, veleno per la mente, conducono in cittadelle dorate, vegetazione rigogliosa, ponti che attraversano fiumi incantati, alla riscoperta di vite precedentemente vissute, rimosse e recuperate a suon di synthoni che ti strizzano le cellule cerebrali fino a cavarne fuori quello non ci si aspetterebbe mai: modalità dell'essere dimenticate, antecedenti la vita stessa, prima ancora di aver percorso l'utero ed aver messo la testa fuori, al cospetto dei Sette, accovacciato sotto il loro sguardo, il loro scambiarsi occhiate severe, preludio a decisioni inappellabili.
E' questa l'alternativa, dunque, l'illusione di una mente che spazia all'infinito ma che infine rimane squallidamente ancorata alla superficie nodosa delle mie percezioni limitate? Alla mia sedia di legno? Al mio tavolo macchiato di sugo? Alla mia fottuta birra del discount?
Atrium Carceri, per stare su con la vita. Ma con stile.
DEATH - IS - NOW!
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